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Le trasformazioni visivo-somestesiche

Per riferirci a qualcosa di molto “semplice” talvolta usiamo l’espressione “facile come bere un bicchiere d’acqua”. Ma raggiungere un oggetto con l’arto superiore è veramente una azione così banale? Se analizziamo sia pure sommariamente i principali processi neurofisiologici coinvolti in un simile gesto, dobbiamo convenire che la naturalezza con cui eseguiamo questo movimento rappresenta in realtà il risultato utile finale di funzioni straordinariamente complesse: la vista infatti si deve trasformare in appropriate informazioni somestesiche (corporee) perché i nostri sistemi di moto siano messi nelle condizioni di afferrare il bersaglio con sicurezza.

Il “dialogo” tra vista e somestesi può essere ostacolato con il prevalere dell’una sull’altra se una di esse diviene inaffidabile: un problema visivo che duri sufficientemente a lungo renderà prevalente il ricorso alle informazioni somestesiche mentre, al contrario, una alterazione o un impoverimento dell’informatività somestesica farà emergere una funzione di compenso con la vista nell’innaturale ruolo di “guida” del movimento.

Innanzitutto, per raggiungere un oggetto nello spazio abbiamo bisogno di localizzarlo visivamente. La vista ci fornisce infatti informazioni fondamentali sulla posizione dell’oggetto rispetto al “nostro” corpo: esso si può trovare alla nostra destra, alla nostra sinistra, sopra, sotto, dietro e davanti a noi. In altri termini, per raggiungere il bicchiere abbiamo dapprima bisogno di localizzarlo non tanto in uno spazio “assoluto” quanto in uno spazio che faccia riferimento al nostro corpo, secondo coordinate che i Neuroscienziati chiamano egocentriche.

I nostri sistemi visivi ci forniscono in anticipo anche altre categorie di informazioni relative all’oggetto vero e proprio: la sua forma, la sua superficie, o il suo peso: sarà dunque la complessa sintesi di questa pluralità di informazioni a sfociare in movimenti efficaci e precisi. Infatti, la nostra mano e le nostre dita assumono una particolare conformazione predisponendosi in maniera differente a seconda che ciò che desideriamo afferrare sia un bicchiere oppure un martello, una grossa valigia che supponiamo essere vuota oppure piena, ecc. Non solo, anche il differente scopo dell’azione che compiremo con l’oggetto che abbiamo visto modificherà la presa che effettueremo:  possiamo prendere una matita per scrivere o per lanciarla lontano da noi e le nostra dita si disporranno in modi completamente differenti.

Come può la nostra mano, priva di recettori visivi, utilizzare le informazioni provenienti dall’occhio per dirigersi sul bersaglio ed afferrarlo? Quanto esposto fino ad ora presuppone dunque che i sistemi visivi e quelli di movimento siano in grado di dialogare reciprocamente, e ciò significa che deve esistere un processo neurale grazie al quale le informazioni visive raccolte dalla nostra retina vengono trasformate in modo tale da fornire la base per l’organizzazione di appropriate configurazioni motorie. Per afferrare l’oggetto, le coordinate visive non possono essere trasferite ed utilizzate così come tali dal nostro arto superiore, poiché in questo caso, esso finirebbe inevitabilmente per andare fuori bersaglio: gli occhi e la mano si trovano infatti in punti dello spazio differenti rispetto all’oggetto da raggiungere (vedi Figura 1A). Occorre pertanto che lo spazio visivo e quello motorio vengano “fusi insieme” in un’unica cornice di riferimento (vedi Figura 1B): questi processi neurali coinvolgono il lobo parietale posteriore, e viene loro dato il nome di trasformazioni visuo-motorie (Lacquaniti, Caminiti, 1998; Fogassi, Luppino, 2005).

 

Fig.1A. Gli occhi e la mano si trovano in posizioni di partenza differenti rispetto al bersaglio da raggiungere: per questo motivo, le informazioni visive relative alla localizzazione dell’oggetto nello spazio non possono essere impiegate così come tali dall’organo motorio che effettuerà la presa. Nel nostro modello estremamente semplificato, il bersaglio si trova ad una certa distanza dagli occhi, e lievemente spostato a sinistra: se l’organo deputato alla presa eseguisse uno spostamento assoluto di pari entità finirebbe dunque inevitabilmente per mancare il bersaglio. Fig. 1B. Per raggiungere efficacemente il bersaglio è necessaria la “fusione” delle informazioni visive (dov’è, rispetto alla mia retina, l’oggetto che voglio prendere, ma anche quale è la sua forma, il suo peso, ecc.) con quelle somestesiche (dove si trova il mio arto superiore rispetto all’oggetto che ho visto, di quanto dovrò aprire le dita, quanta forza sarà necessaria per sollevarlo, ecc.). Questi “dialoghi” tra informazioni di diversa natura (visive e somestesiche) vengono chiamati “trasformazioni visuo-motorie”, ed avvengono con il contributo determinante del lobo parietale posteriore.

 

Le trasformazioni visuo-motorie ci permettono, ad esempio, di vedere un bicchiere e di afferrarlo senza dovere controllare l’esecuzione del movimento della nostra mano con la vista: in questo modo i sistemi visivi e quelli di movimento dialogano tra loro, mantenendo la loro indipendenza.

Anche se la maggior parte delle ricerche hanno riguardato la funzione di raggiungimento con l’arto superiore, le trasformazioni visuo-motorie sono processi importanti in tutti i movimenti, compresa la deambulazione. Osserviamo, ad esempio, le sequenze di movimento illustrate nella Fig. 2: si tratta di due serie di fotografie tratte dall’ampia collezione di Eadweard Muybridge, un pioniere dello studio della biomeccanica animale ed umana per mezzo di tecniche fotografiche molto raffinate per l’epoca (Muybridge, 1913).

 

Fig. 2. In alto: sequenza fotografica di alcune fasi della deambulazione. In basso: fasi della salita di una scala (Muybridge, 1913).

 

Proprio commentando sequenze fotografiche come queste, il fisiologo francese Alain Berthoz ha recentemente rilevato che durante la locomozione lo sguardo dell’Uomo può stabilizzarsi orizzontalmente e, insieme agli otoliti (gli organi vestibolari dell’equilibrio che si trovano nell’orecchio interno) costituisce un sistema di riferimento mobile che ci libera dalla necessità di toccare il terreno, al quale si adatteranno gli arti inferiori (Berthoz, 2011). Analogamente a quanto già discusso per i movimenti dell’arto superiore, anche nel caso della deambulazione i sistemi visivi e quelli motori rimangono dunque relativamente indipendenti tra di loro, ma il dialogo reciproco tra le diverse modalità informative (visive e somestesiche) costituisce il presupposto per ciò che fisiologicamente avviene: “andare dove si guarda” e non “guardare dove si va” (Berthoz, 1998).

Le trasformazioni visuo-motorie presuppongono dunque l’integrità del flusso di entrambe le informazioni visive e somestesiche. Fin qui abbiamo esaminato situazioni di normalità: ci resta adesso da esaminare cosa succeda in una patologia che disturbi i sistemi di moto e quali siano le possibili conseguenze riabilitative.

Ogni condizione che disturba i sistemi di moto si accompagna ad un impoverimento delle informazioni somestesiche che derivano da una fisiologica interazione con il mondo esterno: quando muovo il mio arto superiore per afferrare il bicchiere, sento contemporaneamente il mio arto superiore muoversi, percepisco le sensazioni che derivano dal contatto dei miei polpastrelli con la superficie del vetro, ecc. La conseguenza di una condizione simile sarà che quel sistema informativo rappresentato dal mio corpo non sarà più molto affidabile: il “dialogo” tra vista e somestesi descritto in precedenza sarà meno raffinato e, anziché trasformare informazioni, il malato adotterà una immediata, e dunque poco evoluta, modalità di “compenso”, con le informazioni visive che assumeranno la funzione di ruolo “guida” durante l’esecuzione del movimento.

È questo il caso, ad esempio, di molti malati emiplegici con un buon recupero dell’arto superiore e che, tuttavia, continuano ad eseguire i movimenti di raggiungimento di un oggetto con lentezza, controllando e correggendo la traiettoria dell’arto guardando alternativamente la mano ed il bersaglio: per loro è difficile mantenere lo sguardo sul nostro solito bicchiere ed eseguire una presa efficace e ben modulata, poiché la vista può rappresentare una informazione sostituiva relativamente efficace durante la fase di raggiungimento (il momento in cui la mano si avvicina all’oggetto) ma essa è di scarsa o nulla utilità nella presa (il momento in cui la mano e le dita prendono contatto con l’oggetto).

Il compenso rappresentato dal dominio della vista sulla somestesi compare sovente anche in malati affetti da patologie apparentemente più semplici, che interessano l’apparato locomotore periferico. Ad esempio, molti dei pazienti che sono stati sottoposti ad interventi di chirurgia ortopedica agli arti inferiori riprendono a deambulare mantenendo lo sguardo rivolto verso il suolo o, parafrasando Alain Berthoz, devono “guardare dove mettono i piedi“.

Queste osservazioni hanno implicazioni  importanti per i processi di recupero, e suggeriscono un approfondimento sui mezzi a disposizione del riabilitatore per tentare un migliore ripristino del rapporto, alterato dalla lesione, tra le informazioni visive e quelle somestesiche. Sin dall’inizio, la Riabilitazione Neurocognitiva ha suggerito il superamento di modalità di intervento finalizzate al recupero di singoli elementi (forza muscolare, sensibilità, ecc.), ed ha proposto condotte terapeutiche che propiziassero riorganizzazioni del “sistema-Uomo”  più favorevoli di quelle spontaneamente adottate dal malato. Nel contesto di questo interesse per il funzionamento dell’organismo nella sua totalità sono nate alcune fondamentali anticipazioni di Carlo Perfetti sul problema del rapporto tra informazioni visive e informazioni somestesiche.

Tipicamente, nella maggior parte degli esercizi Neurocognitivi viene richiesta l’analisi visiva di una determinata situazione, ad esempio una serie di figure: nel nostro caso si tratta di alcune sagome a forma di “T” che differiscono tra loro per i rapporti disuguali tra le lunghezze dei lati. Terminata l’analisi visiva, si spiega al malato che avrà il compito di riconoscere ad occhi chiusi una “T”  scelta dal Terapista: il malato dovrà dunque trasformare le informazioni visive in “equivalenti cinestesici”, poiché il riconoscimento della “T” avverrà poi sulla base delle informazioni provenienti dalle sue articolazioni e con la guida tattile del dito indice (Fig. 3A). Percorrendo il contorno della sagoma con il dito il malato eseguirà una analisi somestesica della “T” (Fig. 3B). Infine il malato confronta tra ciò che si attendeva con quanto ritiene di  avere effettivamente percepito (Fig. 3C) (Perfetti, 1986).

 

 

BIBLIOGRAFIA

Berthoz A. Il senso del movimento. Milano: McGraw-Hill; 1998;

Berthoz A. La semplessità. Torino: Codice Ed.; 2011;

Fogassi L, Luppino G. Motor functions of the parietal lobe. Curr Opin Neurobiol 2005 15(6): 626-31 (Abstract http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16271458);

Lacquaniti F, Caminiti R. Visuo-motor transformation for arm reaching. Eur J Neurosci 1998 10(1): 195-203 (Abstract http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9753127);

Muybridge E. The human figure in motion. An electrophotographic investigation of consecutive phases of muscular actions (quarta edizione). London: Chapman&Hall LD; 1913;

Perfetti C. Condotte terapeutiche per la rieducazione motoria dell’emiplegico. Milano: Ghedini Ed.; 1986.

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