web analytics

2) Luria A.R. – Il ripristino della funzione ad opera della riorganizzazione dei sistemi funzionali

25 febbraio 2012
By , in Recensioni - letteratura

Il ripristino della funzione ad opera della riorganizzazione dei sistemi funzionali

Translated from “Restoration of function after brain injury” by Aleksandr Romanovič Luria, pagg. 32 – 77, Pergamon Press – now Elsevier (1963), all rights reserved

In tutti i casi discussi nel primo capitolo il disturbo della funzione era per certi aspetti l’effetto dell’inibizione temporanea, e la rimozione di questa inibizione ristabiliva la funzione nella sua forma originaria. L’inibizione temporanea, tuttavia, non è l’unico fattore che disturba la funzione nelle lesioni cerebrali localizzate, dal momento che nella maggior parte dei casi il danno che colpisce le aree della corteccia cerebrale o le vie di comunicazione è sufficientemente grave da determinare la perdita della funzione corrispondente. In tali casi il destino della funzione disturbata sarà completamente differente, e deve essere utilizzato un altro metodo per il suo ripristino.

Dato che le strutture neuronali della corteccia, una volta distrutte, non sono in grado di rigenerarsi, difficilmente ci si può attendere il reintegro della funzione del sistema colpito, e si potrebbe assumere che la lesione cerebrale determinerà un danno irreversibile alle funzioni psico-fisiologiche complesse del cervello. Questa assunzione, tuttavia, non è del tutto giustificata.

L’esperienza clinica mostra che in alcuni casi, nonostante il danno irreversibile recato alla sostanza cerebrale, una qualche forma di recupero sui gravi disturbi iniziali delle funzioni psico-fisiologiche complesse può avere luogo dopo un certo periodo di tempo.

Una tale modalità di ristabilimento delle funzioni distrutte è stata osservata di frequente nei casi di disordini motori centrali, di difetti della coordinazione o gnosici, e, in particolare, nei disturbi linguistici causati da lesioni cerebrali. L’attenta osservazione ha rivelato, tuttavia, che la funzione che stava “ritornando” non veniva ripristinata nella sua forma originaria, ma che i movimenti, le operazioni gnosiche e, in particolare gli atti linguistici venivano eseguiti con difficoltà, ed erano divenuti molto più irregolari, presentando alcuni aspetti differenti rispetto alle funzioni esistenti in precedenza.

Qui sorge una domanda fondamentale: questo ripristino di una funzione psico-fisiologica complessa che segue la distruzione di aree localizzate del cervello è un semplice processo di restituzione, oppure rappresenta una specifica forma di “riorganizzazione”, così che la struttura psico-fisiologica della funzione originaria è radicalmente cambiata e viene trasferita ad altri sistemi corticali risparmiati dalla lesione?

La risposta a questa domanda non si limiterà a rendere conto della plasticità funzionale della corteccia cerebrale umana, ma fornirà ai ricercatori uno strumento potente per controllare attivamente lo sviluppo e la riorganizzazione delle funzioni della corteccia cerebrale. Ci occuperemo ora dell’analisi dettagliata di questo problema.

1) Il problema della plasticità e la riorganizzazione dei sistemi funzionali

È stato spesso osservato come le funzioni disturbate possano essere ripristinate attraverso la riorganizzazione degli elementi che compongono quella particolare attività. Questi fenomeni ricadono in due gruppi, uno ottenuto studiando il ripristino di funzione dopo estirpazione di un organo, e l’altro con esperimenti nei quali ad un organo viene assegnata una funzione impropria. Si scoprì che dopo la distruzione di parte di un sistema funzionale in un animale, l’attività di quel sistema viene prodotta attraverso la riorganizzazione della parte residua. Dopo avere amputato uno, due, o anche tre arti di un animale, Bethe (1926, 1931) ha dimostrato che l’animale continua a spostarsi utilizzando gli altri arti oppure l’unico arto residuo, e che i movimenti venivano ora coordinati in una maniera completamente differente. L’alto grado di plasticità dimostrato dai sistemi funzionali danneggiati, assicurato dalla riorganizzazione dinamica e dalla capacità di adattamento a circostanze nuove piuttosto che alla rigenerazione e al ristabilimento della loro integrità morfologica, viene osservato anche nei vertebrati superiori, ovvero nelle scimmie e nell’Uomo. Una condizione essenziale per una riorganizzazione di questo genere è che l’animale abbia necessità di quella particolare attività, e maggiore è il bisogno e più facilmente ed automaticamente avrà luogo la riorganizzazione richiesta. Esempi di tale adattamento negli animali furono osservati negli esperimenti di Anochin, Porter ed altri, quando, dopo la sezione del nervo motorio di un emidiaframma, i movimenti del diaframma furono automaticamente riorganizzati e confinati all’emilato integro, con la partecipazione dei muscoli intercostali; Anochin dimostrò che i muscoli intercostali venivano coinvolti nell’atto respiratorio non appena l’animale si trovava in debito di ossigeno, condizione che pertanto andava a stimolare il suo centro respiratorio.

La riorganizzazione spontanea può avere luogo anche nel sistema locomotore. Negli esperimenti di Lashley, quando un arto superiore di una scimmia veniva paralizzato oppure semplicemente immobilizzato, la sua funzione veniva prontamente assunta dall’arto controlaterale. È possibile osservare un meccanismo simile nelle lesioni che colpisconola fonazione. Inpazienti umani che avevano subito una laringectomia, Bethe (1931) osservò che la capacità fonatoria veniva ricostituita inghiottendo aria con l’esofago, e regolando successivamente il flusso d’aria necessario per la fonazione.

Queste osservazioni hanno dimostrato che la relazione tra una funzione e l’organo responsabile dell’esecuzione di quella funzione non è immutabile, e che può avere luogo un adattamento anche se l’organo che in precedenza garantiva la funzione viene distrutto. Risultati simili vennero ottenuti dopo che una parte di un sistema funzionale era stata artificialmente destinata ad una funzione non abituale; la sua attività cambiava rapidamente per affrontare le nuove circostanze ed iniziava a rivestire un ruolo nuovo nel sistema riorganizzato.

Più di un secolo fa Flourens condusse la prima trasposizione sperimentale di nervi dei muscoli flessori ed estensori dell’ala di un uccello. Contrariamente alle attese questa trasposizione non impedì l’attività dell’ala nel suo complesso, anche se gli impulsi per l’ala che provenivano dal “centro” della flessione erano ora quelli del “centro” dell’estensione, e viceversa. In esperimenti simili, Marin traspose i muscoli adduttori ed abduttori di un occhio e scoprì che i movimenti normali dell’occhio venivano risparmiati a dispetto dell’innervazione ora invertita. Seguirono altri esperimenti di trasposizione di nervi, che dimostrarono fino a dove possa spingersi una tale riorganizzazione. Il sistema motorio si adatta a condizioni nuove e viene riorganizzato, e l’attività funzionale del sistema continua in circostanze radicalmente alterate dal punto di vista fisiologico.

Anche se la plasticità dell’attività nervosa di un animale, che gli permette di compensare un particolare difetto, non viene messa in dubbio, il meccanismo fisiologico di questa riorganizzazione è poco conosciuto. Non è stato stabilito se questa riorganizzazione sia sempre immediata ed “istintiva” come viene descritto in letteratura, quali parti del sistema nervoso centrale siano coinvolte, e se essa abbia luogo sempre oppure solo a determinate condizioni. Le condizioni che influenzano la capacità di compensazione ed i fattori fisiologici che vi prendono parte non sono stati studiati. Il principio della plasticità è stato ben stabilito in fisiologia, ma i suoi dettagli restano sconosciuti. Con le parole di Pavlov (1932), ” … a questo importantissimo principio non è mai stata assegnata la sua vera collocazione all’interno della fisiologia del sistema nervoso, né è mai stato lucidamente ed uniformemente enunciato”.

Questo problema è stato investigato dai fisiologi Sovietici. L’opera di Asratyan (1939), Anochin (1947) e Bernstein (1947) ha fatto luce sui limiti della riorganizzazione funzionale e sulle condizioni fisiologiche necessarie per la compensazione di un difetto con questo mezzo.

Il concetto che è stato spesso espresso in letteratura con il termine “funzione” implica due concetti totalmente differenti. Da un lato esso descrive l’attività diretta e manifesta di un tessuto (la funzione secretoria delle ghiandole, la funzione contrattile del muscolo, e così via); in questo senso la “funzione” è naturalmente una caratteristica peculiare di quel particolare tessuto ed è inseparabile da esso; il tessuto non può cambiare la propria funzione né assumerne una nuova.

D’altra parte il termine “funzione” potrebbe assumere un significato completamente differente quando parliamo di “funzioni” in qualità di forme basilari di adattamento dell’organismo vivente al proprio ambiente e di principali manifestazioni della sua attività vitale. Espressioni come la “funzione respiratoria”, la “funzione digestiva” oppure le complesse “funzioni locomotorie” e, da ultimo, le ancora più complesse “funzioni psicologiche” (linguaggio, scrittura, ecc.) hanno un significato piuttosto differente. Facciamo riferimento in questi casi ad attività adattative complesse (biologiche in alcuni stadi di sviluppo e storico-sociali in altri), che soddisfano una particolare esigenza e rivestono un ruolo particolare nell’attività vitale dell’animale. Una “funzione” adattativa complessa come queste verrà solitamente eseguita da un gruppo di unità strutturali e, come ha dimostrato Anochin (1947), queste saranno integrate in un “sistema funzionale”. Le parti di questo sistema possono essere distribuite su di un’ampia superficie del corpo e si uniscono solo quando devono eseguire il proprio compito comune (per esempio la respirazione o la locomozione). Tra queste parti si stabilisce una connessione temporanea flessibile ma forte, che le unisce in un unico sistema e che sincronizza la loro attività. Questo “sistema funzionale” lavora come un’entità completa, organizzando il flusso dell’eccitazione e coordinando l’attività dei singoli organi.

L’opera di Bernstein (1947) e di Anochin (1947) ha dimostrato che un tale sistema funzionale non può sussistere senza l’apporto di un flusso nervoso afferente costante che informi l’animale sulla situazione nella quale esso deve agire e sulla condizione dei propri organi effettori. I gruppi muscolari non possono eseguire i movimenti, e i singoli componenti dei sistemi respiratorio e digestivo non possono portare a termine il proprio lavoro, in assenza di un costante apporto di impulsi afferenti che segnalino lo stato dell’effettore periferico e controllino il corso di una particolare azione [analisi biochimiche (vedi N. A. Bernstein, 1947) hanno dimostrato che il sistema muscolo-scheletrico, che possiede numerosi gradi di libertà, non viene controllato da impulsi efferenti diretti bensì attraverso l'intermediazione di un "campo afferente" costantemente attivo, che assicura una verifica costante sui movimenti sin dal momento in cui essi hanno inizio].

L’opera di Anochin ha dimostrato che ogni sistema funzionale possiede un particolare gruppo di recettori, che insieme formano uno specifico “campo afferente”, che assicura la normale operatività del sistema funzionale. Questo campo afferente talvolta matura nella prima ontogenesi (in alcuni casi nel periodo embrionale), dopo di che esso inizia a trasmettere impulsi attraverso il sistema nervoso. Il numero degli impulsi afferenti richiesti per l’attività di ciascun sistema funzionale diminuisce gradualmente, e nell’adulto, quando la funzione ha raggiunto un determinato livello di sviluppo, solo un piccolo gruppo di recettori viene utilizzato realmente. Uno solo di questi si distingue come “recettore dominante” ed i restanti rimangono in uno stato latente, costituendo una riserva di impulsi afferenti per quel particolare sistema funzionale (Anochin, 1947).

L’evoluzione dei sistemi funzionali determina anche i limiti della possibile riorganizzazione funzionale dopo la perdita di uno dei suoi componenti ed il disturbo di tutta quanta la funzione intera.

Il fatto che la riorganizzazione all’interno di un sistema funzionale dopo la perdita di uno dei suoi elementi (per esempio, entro il sistema respiratorio dopo la perdita di un componente oppure entro il sistema locomotore dopo l’amputazione di un arto) avviene facilmente ed in tempi relativamente brevi, potrebbe essere spiegato dalla facilità con la quale un recettore del sistema funzionale può sostituirsi ad un altro, e dal fatto che ogni sistema funzionale ha un ampio apporto di impulsi afferenti.

La riorganizzazione dell’innervazione dei diversi organi e le modificazioni nella funzione del “centro” che abbiamo descritto in precedenza, potrebbero anche essere spiegate con la presenza di un costante flusso afferente per il sistema funzionale. Negli esperimenti di Anochin, se un muscolo flessore con la sua innervazione veniva trapiantato nella posizione di estensore, la riorganizzazione nervosa aveva luogo velocemente ed il muscolo cominciava a lavorare da subito insieme agli estensori senza disturbare il sistema funzionale; lo stesso risultato veniva ottenuto, anche se un poco più lentamente, negli esperimenti di trasposizione del nervo nei quali l’arto veniva ad essere innervato da un centro motore non abituale, ma nonostante tutto esso riassumeva ben presto la propria funzione originale. Se l’arto, nuovamente innervato, veniva deprivato della sua innervazione afferente, restava ancora escluso dal sistema funzionale corrispondente ed il difetto non veniva compensato.

L’ingresso di un organo nel campo afferente del nuovo sistema funzionale rappresenta quindi una condizione essenziale per la sua incorporazione funzionale.

La riorganizzazione dell’innervazione non è confinata ad un singolo sistema funzionale. In una serie di brillanti esperimenti, Anochin ha dimostrato che è possibile fare sì che un centro innervi, per mezzo della riorganizzazione, un’area periferica fino a quel momento estranea, così che la successiva attività del sistema funzionale si realizza attraverso nuovi meccanismi neurofisiologici. Egli rimosse i nervi motori di un arto e suturò la terminazione periferica del nervo radiale alla terminazione centrale del vago; in risposta alla stimolazione esterna l’arto reinnervato cominciava a provocare impulsi di tosse e vomito con i quali si muoveva in sincronia; ebbe luogo una riorganizzazione graduale e l’arto venne incorporato nel sistema locomotore, tornando a riassumere la sua funzione appropriata. Questo avveniva solo quando tutto quanto il sistema afferente facente parte della sua funzione precedente veniva isolato dal centro originario, e quel centro incluso nel nuovo campo afferente corrispondente al nuovo sistema funzionale. Tanto più facilmente queste due condizioni venivano soddisfatte, quanto più agevolmente si realizzava la riorganizzazione della funzione nei casi in cui la compensazione del difetto avveniva per mezzo di un sistema completamente differente. In questo modo viene ampliato il ventaglio delle riorganizzazioni funzionali possibili, ed in aggiunta alle forme di compensazione “intrasistemiche”, si dischiude la possibilità per le più estensive compensazioni “intersistemiche”.

Ulteriori ricerche hanno dimostrato che una riorganizzazione di questo genere può realizzarsi a livelli differenti e che essa ha determinati limiti funzionali. Anochin, per esempio, ha dimostrato che le indiscusse riorganizzazioni relativamente rapide non sono in grado di andare oltre le modificazioni nell’organizzazione segmentale e nucleare del sistema funzionale e non includono i livelli corticali superiori della regolazione; viene qui ottenuto un effetto relativamente localizzato ed il ripristino di funzione è incompleto. L’arto a cui viene fornita una nuova innervazione può facilmente partecipare ad atti stereotipati come quelli realizzati nel corso della locomozione: tuttavia anche dopo 500 ripetizioni Anochin non riuscì ad ottenere un riflesso condizionato di difesa da un arto, anche se esteriormente esso sembrava essere tornato alla funzione completa. Solo dopo un lungo periodo di tempo (più di 2 anni) si realizzò la regolazione corticale dell’arto lesionato, così che potevano essere eseguite quelle delicate operazioni necessarie per affrontare particolari richieste.

La compensazione di una funzione disturbata può dunque avere luogo per mezzo di sistemi differenti e anche a livelli differenti del sistema nervoso, ed il risultato varierà da caso a caso. L’inclusione della regolazione corticale nel sistema dopo un allenamento prolungato è l’unico modo per liberare l’arto reintegrato da quell’attività ristretta e relativamente stereotipata che mostra quando è incorporato da poco in un sistema funzionale attivo, e permettere all’arto di ottenere quel grado di indipendenza che possiede normalmente. Gli esperimenti di Asratyan hanno dimostrato che nella riorganizzazione della funzione locomotoria successiva ad amputazione di uno o più arti del cane, è necessaria la partecipazione della corteccia cerebrale per ottenere una compensazione adeguata.

Queste osservazioni hanno dimostrato come si realizzi la riorganizzazione dei singoli componenti del sistema funzionale e quale sia la forma di compensazione del difetto che può avvenire nelle varie attività dell’animale.

Gli esempi sopra citati sono tutti tratti da osservazioni condotte su animali appartenenti a vari livelli di sviluppo biologico, ma fanno riferimento solo a forme relativamente semplici di comportamento e non vanno oltre i limiti dei più elementari sistemi fisiologici “istintivi” che possiedono un’innervazione afferente interocettiva e propriocettiva (come nel sistema respiratorio) o spaziale (come nella locomozione) relativamente semplice.

Qui naturalmente sorge la più interessante delle domande: come avviene la compensazione ai livelli molto più complessi dell’attività umana? Quali sono le forme specifiche della plasticità umana, quali i suoi meccanismi, e quali i limiti all’intercambiabilità dei suoi componenti?

Due aspetti interconnessi caratterizzano la transizione dal livello biologico del mondo animale alle forme più elevate dell’attività umana sviluppate socialmente, cioè il passaggio dalle forme “istintive” del comportamento guidate da fattori biologici (inclusi le diverse abitudini animali) alle forme più ricche e complesse dell’attività umana diretta ad uno scopo, e allo sviluppo di livelli ed interrelazioni completamente nuovi all’interno del sistema nervoso centrale. L’attività mentale dell’Uomo viene sempre prodotta in un mondo di oggetti creati nel corso dello sviluppo della società, è sempre rivolta ad essi, e viene frequentemente eseguita con il loro aiuto. Di conseguenza, sia gli oggetti che i meccanismi dell’attività umana ne risultano enormemente arricchiti, fatto che rende quest’attività generalmente differente dalle forme più dirette che caratterizzano il comportamento animale. Questo essenziale cambiamento nel modo di vivere conduce a radicali modificazioni nella struttura dei processi mentali; l’Uomo è motivato da principi differenti e la sua attività è diretta verso diversi scopi intermedi, che costituiscono unicamente delle fasi sulla via della soddisfazione di bisogni più complessi. Il comportamento umano può essere suddiviso in una quantità di azioni isolate, ognuna delle quali conserva il proprio significato per il fatto di essere connessa ad uno scopo particolare, e viene eseguita da numerose operazioni molto variate. La formulazione dello scopo nel corso dell’esecuzione di un’azione rimane un tratto essenziale del comportamento umano multiforme e consapevole [la struttura fisiologica dell’azione è stata studiata recentemente da A. N. Leont’ev (Lineamenti dello sviluppo della mente, 1947)].

Il tratto più caratteristico dell’attività umana è rappresentato dal fatto che i sistemi funzionali rigidi e biologicamente stereotipati che abbiamo descritto finora vengono rimpiazzati da “sistemi psicologici” (questo termine fu introdotto da Vygotskii, 1934) estremamente dinamici e complessi [vedere la lettura di questo Autore: “Il problema dello sviluppo e della disintegrazione delle funzioni psicologiche superiori”, tenuta alla Conferenza Plenaria dell’Istituto di Medicina Sperimentale di Tutta l’Unione il giorno 28 Aprile 1934, e anche la lettura: “La psicologia e la teoria della localizzazione” (Trans. First All Ukrainian Psychoneurological Congr., 1934, pp. 34-41)].

Nel corso dello sviluppo del bambino questi sistemi vanno incontro ad una riorganizzazione massiva in virtù della quale lo stesso compito viene eseguito con mezzi completamente differenti. È durante questo sviluppo che sistemi funzionali come la percezione, la memoria e l’intelligenza cambiano radicalmente la propria struttura psicologica e cominciano a fondarsi su una “costellazione” completamente nuova di funzioni mentali. Questa plasticità delle operazioni dell’attività mentale rappresenta uno dei suoi tratti più caratteristici ed importanti. Bernstein (1923, 1947) ha dimostrato che una particolare azione diretta ad uno scopo (come battere un chiodo con un martello) non viene quasi mai eseguita dal medesimo sistema muscolare, ad eccezione di quando essa è fortemente automatizzata: se la posizione del corpo varia leggermente il movimento di colpire verrà eseguito attraverso una selezione completamente differente di atti coordinati, mentre viene conservato lo suo scopo finale dell’azione. Talvolta la flessibilità del sistema funzionale che controlla un’azione finalizzata è così elevata che lo stesso risultato può essere ottenuto con mezzi del tutto differenti. I sistemi psicologici superiori studiati da Vygotskii e collaboratori (Vygotskii et al., 1930) sono caratterizzati da una struttura ancora più complicata. Un atto come quello di memorizzare, nei diversi stadi dello sviluppo mentale (e nelle differenti fasi di un programma speciale di educazione), viene svolto utilizzando in successione sistemi nei quali la percezione diretta, l’immaginazione o la determinazione di relazioni logiche tra elementi ottenuta con l’ausilio del linguaggio, e così via, rivestono di volta in volta il ruolo principale. Nonostante la differente modalità, il risultato finale rimane lo stesso. I sistemi di atti acquisiti nel corso del processo educativo, come la trasmissione dell’insegnamento per mezzo del linguaggio, il sistema della scrittura, del calcolo, e così via, rivelano un grado di complessità e di variabilità più elevato anche per quanto riguarda il loro “equipaggiamento tecnico”. Mentre la prima caratteristica dei sistemi funzionali più elevati dell’Uomo è la loro grande plasticità, il secondo aspetto peculiare delle modificazioni essenziali che si verificano con il passaggio alle forme superiori dell’attività umana è rappresentato dalle proprietà strutturali e funzionali del cervello. I neurologi che hanno studiato il cervello alla luce del concetto evoluzionistico sanno da molto tempo che esso possiede diversi livelli strutturali. Un recente lavoro Sovietico ha dimostrato che questi livelli differenti possiedono diversi sistemi afferenti. Pavlov ha descritto l’esistenza di due “sistemi di segnalazione” completamente diversi nella funzione della corteccia cerebrale; Bernstein (1947) ha sviluppato la teoria dei differenti campi afferenti, dei diversi livelli dei sistemi cerebrali corrispondenti a questi campi, e delle varie forme di movimento e di attività umane che essi svolgono (vedi Box 1).

Box 1. I differenti livelli di organizzazione dell'azione. Si possono distinguere i "livelli basilari" A, B, e C ed il "livello guida" D. Per una trattazione più estesa ed esauriente vedere di N. A. Bernstein "Fisiologia del movimento", in particolare pp. 121-173, il Capitolo su: "La coordinazione dei movimenti nell'ontogenesi" (N. d. T.)

Anche se i livelli di regolazione più elementari dell’organizzazione nervosa centrale utilizzano i semplici impulsi propriocettivi come fonte informativa afferente, dal momento in cui si sviluppano i recettori di distanza ed i movimenti divengono più elaborati, l’animale fa riferimento agli stati più complessi che appartengono al campo spaziale, nel quale l’intero sistema dei recettori di distanza, unito agli analizzatori centrali, funziona in qualità di fonte principale degli impulsi afferenti. I movimenti governati da questo livello di regolazione sono invariabilmente caratterizzati dal fatto di essere finalizzati e connessi alle modifiche della posizione nello spazio; se l’attività viene organizzata spazialmente essi sono in grado di rimpiazzarsi l’un l’altro, lasciando invariato solo lo scopo principale: portare a termine un movimento che modifica la posizione del corpo nello spazio. La riorganizzazione di un sistema locomotore lesionato come quello appena descritto ha luogo a livello di questo “campo spaziale” nel quale i movimenti “di sottofondo” a livello sinergico rivestono solo un ruolo secondario. La capacità di portare a compimento questa organizzazione “geometrica” delle azioni attraverso ciascun movimento rappresenta il tratto distintivo della sintesi degli impulsi spaziali afferenti che prevalgono a quel livello. È possibile riscontrare la presenza di questi differenti livelli di organizzazione anche negli animali superiori. Nell’Uomo osserviamo la formazione di nuovi livelli di integrazione, ovvero il livello dell’azione oggettuale. Una caratteristica distintiva di questo sistema funzionale è che esso viene creato sotto l’influenza di forme completamente nuove di sintesi afferenti: la sua fonte principale di impulsi afferenti è l’immagine del mondo oggettivo esterno, che inevitabilmente determina una quantità di azioni oggettuali che sono più complesse ed assolutamente specifiche. Come afferma Bernstein, i segnali metrici (relativi all’ampiezza) e quelli locomotori (relativi alla direzione) tipici delle azioni al livello del “campo spaziale” non sono più indispensabili per l’esecuzione delle azioni oggettuali, e vengono rimpiazzate da relazioni qualitative “topologiche”. Questi segnali di “spazio topologico”, il più importante dei quali è la conservazione del pattern geometrico qualitativo (chiuso oppure aperto, posizione all’interno oppure all’esterno di un determinato oggetto, tipo di movimento senza riguardo alla sua intensità od ampiezza), caratterizzano anche quelle sintesi afferenti che ora cominciano a guidare l’andamento dei movimenti al livello del campo oggettuale, mentre i livelli inferiori (il campo spaziale, o sinergia) continuano a rivestire un ruolo minore di retroguardia. Si può facilmente comprendere che questo tipo di sintesi afferente sarà inevitabilmente associato ad un tipo di “plasticità” e di “intercambiabilità” degli elementi che compongono il sistema funzionale completamente differente rispetto a quelli del livello del campo locomotorio spaziale. L’organizzazione razionale dell’azione in questione è molto meno dipendente dalla composizione del movimento. Una figura identica dal punto vista topologico come una stella o una lettera dell’alfabeto può essere differente nella taglia, nella forma, nella posizione relativa o nella curvatura delle linee, e tuttavia, se vengono rispettate certe condizioni, essa rimarrà la medesima figura di una stella o della lettera corrispondente. Bernstein ha dimostrato che una parola può essere scritta con diversi arti o parti diverse degli arti (la mano destra o la sinistra, il gomito, la spalla, la gamba e così via) e, nonostante le variazioni nell’ampiezza, nel grado di coordinazione e nelle componenti sinergiche (fluidità della scrittura), i lineamenti topologici di base delle lettere e le idiosincrasie soggettive della scrittura rimarranno invariate (Fig. 1).

Fig. 1. Qualità della scrittura prodotta con parti differenti dell'arto (Bernstein, 1947). Per una spiegazione, vedere il testo

Non discuteremo le caratteristiche fondamentali dei livelli che sottendono il “livello dell’azione oggettuale” dato che per molti aspetti esse rappresentano solo il suo ulteriore sviluppo (il livello dei processi linguistici superiori e del secondo sistema di segnalazione sono esempi tipici di queste forme superiori di organizzazione dell’attività neuropsichica che verrà discussa oltre). La teoria dei vari livelli strutturali dei processi nervosi e del differente carattere dei loro impulsi afferenti a ciascuno di questi livelli ci fornisce un’idea più precisa delle possibili forme di sostituzione e compensazione, così che le principali regole che governano il ripristino dei sistemi funzionali lesionati nell’Uomo ad opera della riorganizzazione divengono molto più chiari. Il fatto che ogni azione possieda sia livelli principali che di “sottofondo”, capaci di rimpiazzare tutti gli altri in vari modi, e la capacità dell’Uomo di riorganizzare non solo le proprie azioni entro ogni livello ma anche di spostare queste azioni da un livello ad un altro, produce forme di “plasticità” che non esistono nel mondo animale. La compensazione dei difetti che insorgono nelle ferite periferiche nell’Uomo e le ampie possibilità di restituzione dei vari sistemi sono stati oggetto di studio da parte di numerosi autori [per una review vedi Bethe (1931) e Leont'ev e Zaporozhets (1945)] ma soltanto di recente sono stati effettuati dei tentativi per interpretare questo ricco materiale empirico da un punto di vista teoretico. Ogni movimento complesso viene realizzato per mezzo dell’attività combinata di tutti i livelli descritti in precedenza. Se viene leso un singolo elemento qualsiasi che contribuisce all’atto motorio, e tuttavia viene risparmiato il campo centrale (sintetico) afferente, quest’azione difettosa può essere riorganizzata ad i collegamenti della catena danneggiati verranno sostituiti da altri; l’azione viene trasferita ad altri organi motori senza che venga modificata la sua propria struttura predeterminata. È stato spesso riferito di persone che, avendo perduto entrambe le mani, sono in grado di eseguire attività complesse utilizzando i monconi, le spalle, le gambe oppure i denti, principio questo che trova un’utile applicazione pratica nei programmi di terapia occupazionale svolti negli ospedali [L'organizzazione ed il ruolo della terapia occupazionale (Gellershtein, 1944)]. Ancora più interessante è il fatto che quando un’azione subisce un danno, il livello al quale essa è costruita può essere cambiato, e le complicazioni causate dal difetto possono allora essere superate. Un lavoro apprezzabile in questo campo è stato condotto da Leont’ev e collaboratori (vedi Leont’ev et al., 1945), che ha analizzato il disturbo dell’attività motoria dopo una lesione alle ossa e ai muscoli di un arto, ed ha scoperto che la sua caratteristica essenziale non è rappresentata dalla perdita di forza del movimento ma dalla perdita della capacità di dirigere quel movimento. Le lesioni che interferiscono con le relazioni tissutali disturbano principalmente il normale apporto afferente dell’arto; di conseguenza la normale sintesi afferente non avrà luogo ed il movimento rimarrà deficitario. In questi casi i movimenti integrati al livello propriocettivo che subiranno la maggiore perdita afferente saranno quelli più considerevolmente disturbati. Se la premessa è corretta sorge naturale una domanda: è possibile cambiare il livello di integrazione di un movimento e, includendolo in nuovi sistemi afferenti, spostare il sistema afferente propriocettivo in secondo piano, e quindi riorganizzare il movimento e compensare il difetto? Questa possibilità è stata oggetto delle investigazioni di Leont’ev e collaboratori. Dopo avere stabilito il limite fino al quale una persona ferita potesse sollevare la propria mano in risposta alla semplice istruzione “solleva la tua mano più in alto che puoi!” (determinando ovviamente la produzione di movimenti costruiti al livello propriocettivo), essi modificarono il compito e trasferirono la costruzione del movimento ad un altro livello. Al paziente venne chiesto di toccare un punto che poteva vedere chiaramente o di afferrare un oggetto sospeso in alto. Il movimento rimaneva uguale esteriormente, ma era cambiata la sua composizione psico-fisiologica: nel secondo compito esso veniva trasferito al livello del campo spaziale, mentre nel terzo al livello dell’azione oggettuale.

L’effetto del movimento era completamente differente in ognuno di questi tre compiti. Leont’ev e Zaporozhets scoprirono che se i pazienti affetti da una lesione del gomito passavano da un movimento eseguito in risposta all’ordine “solleva le tue mani più in alto che puoi” allo stesso movimento questa volta eseguito contro una parete sulla quale era stato appeso uno schermo quadrettato, e sotto il controllo visivo, l’ampiezza media del movimento aumentava di circa 7°; se veniva loro chiesto di sollevare la mano fino ad un certo numero indicato sullo schermo l’ampiezza aumentava di circa 13°, mentre alla richiesta di afferrare un oggetto sospeso in alto, aumentava di circa 18°. Quando si passava ad un altro livello all’interno del quale il sistema afferente non si fondava sugli impulsi propriocettivi ma era piuttosto associato ad un compito oggettuale esterno, l’ampiezza del movimento dell’arto lesionato era di gran lunga maggiore del solito. Questi esperimenti hanno confermato le numerose osservazioni cliniche condotte su pazienti feriti. A questo punto si potrebbe obiettare che un fattore importante potesse essere rappresentato dal fatto che, mentre il paziente risparmiava il proprio arto lesionato durante il primo test (non oggettuale), la sua attenzione veniva distolta dagli stimoli dolorosi quando passava ad un’azione oggettuale; questa, tuttavia, non poteva essere l’unica spiegazione, come risulta evidente dai successivi esperimenti che dimostrano che il trasferimento del movimento ad un nuovo livello di integrazione determina un marcato cambiamento nel grado della sua coordinazione. Se, per esempio, viene chiesto al paziente di premere velocemente con la mano su un pallone, la mano lesionata controllata dagli impulsi propriocettivi mostra di solito una perdita di coordinazione maggiore rispetto alla mano sana (Fig. 2, A); se viene introdotto un controllo di tipo spaziale (visivo) chiedendo al paziente di seguire il movimento di una penna lungo una linea disegnata in precedenza su di un chimografo, questa perdita di coordinazione non avrà luogo, e la mano lesionata e quella sana non saranno più distinguibili (Fig. 2, B). Un analogo miglioramento della coordinazione passando da un movimento guidato da impulsi propriocettivi (“ginnico”) ad uno oggettuale fu ottenuto da Merlin, che studiò sperimentalmente la coordinazione dinamica dei muscoli del braccio e dell’avambraccio in risposta alle due istruzioni sopra menzionate.

Fig. 2. Miglioramento della coordinazione durante il trasferimento del movimento organizzato propriocettivamente (A) a quello organizzato spazialmente (B). Sulla sinistra - la mano sana, e sulla destra - la mano lesionata (Leont'ev e Zaporozhets, 1945)

Studi comparativi hanno quindi dimostrato che sia l’ampiezza che il grado di coordinazione del movimento nell’arto leso si modificano in funzione del livello di organizzazione che dà origine al movimento e dipendono dalla propria fonte di impulsi afferenti. Dal momento che anche la stessa fonte afferente principale può variare sensibilmente a seconda del compito affrontato dal paziente, anche il movimento può acquisire una nuova struttura. Modificando il compito, possiamo quindi cambiare le possibilità funzionali dell’arto leso.

Includendo l’arto leso in una lunga serie di movimenti organizzati in modo oggettuale, possiamo non solo aumentare considerevolmente le sue possibilità funzionali, ma anche restituire gradualmente l’arto all’azione per mezzo di un adeguato allenamento dei muscoli. Inizialmente l’arto parteciperà in modo passivo all’attività bimanuale, e solo dopo esercizi prolungati che utilizzano speciali strumenti, verranno ripristinati i movimenti indipendenti e differenziati nell’arto.

In tutti i casi sopra menzionati la riorganizzazione del sistema leso è tutt’altro che istintiva nel carattere, e non si verifica senza la partecipazione della coscienza. Mentre le riorganizzazioni automatiche ed istintive che avvenivano dopo la lesione solitamente non oltrepassavano i limiti del particolare sistema funzionale, escludendo semplicemente l’arto leso così che l’azione veniva eseguita dalle restanti componenti dell’apparato locomotorio, il passaggio conscio della funzione a nuovi livelli di afferenziazione e l’addestramento a nuovi metodi di esecuzione del movimento richiedeva un lungo periodo di istruzione, e anziché escludere l’arto parzialmente leso, conduceva alla sua partecipazione all’azione e, entro certi limiti, al ripristino della sua funzione motoria.

Queste scoperte, che indicano come possa essere riorganizzata la funzione di un arto che fa parte del sistema funzionale di un’azione oggettuale, sono state applicate allo sviluppo di un programma di terapia occupazionale, che ha contribuito alla riabilitazione dei disabili della Seconda Guerra Mondiale. Esse hanno inoltre fornito un’idea più chiara del concetto di “plasticità”.

2. Principi generali della riorganizzazione dei sistemi cerebrali

(a) Il problema della riorganizzazione. Abbiamo ora esaminato la riorganizzazione di sistemi funzionali nei quali l’elemento leso era situato alla periferia, mentre l’apparato centrale responsabile del processo di riorganizzazione era integro. Abbiamo analizzato casi nei quali la funzione del “sistema” veniva riorganizzata sotto l’influenza di una modificazione dell’apporto afferente; a mano a mano che la funzione diventava più complessa, l’apparato corticale centrale ricopriva un ruolo maggiore nella riorganizzazione dei sistemi danneggiati e nella compensazione del disturbo. In tutti questi casi, tuttavia, questo sistema di regolazione era intatto, cosa che spiega il successo della riorganizzazione che avvenne.

Nasce ovviamente una domanda: cosa accade nei casi che ci interessano particolarmente, in cui parte dello stesso apparato centrale – la corteccia, i centri sottocorticali o la sostanza bianca dell’emisfero – viene distrutta? Possiamo aspettarci in questi casi il ripristino della funzione e la compensazione del difetto ad opera di una simile riorganizzazione della funzione distrutta? O al contrario, in questi casi, la possibilità di ripristino della funzione distrutta è molto limitata, e questo metodo di ripristino è di scarso rilievo pratico?

Il ripristino di funzioni lese a causa di lesioni cerebrali circoscritte e la compensazione di deficit funzionali sono stati descritti di frequente. Diversi autori hanno osservato che questi processi sono tanto più marcati quanto più bassa è la posizione occupata dall’animale sulla scala biologica.

Lashley (1935) estirpò porzioni diverse della corteccia cerebrale del ratto osservando evidenti disordini dei comportamenti complessi, che si limitavano alle funzioni più complesse nei casi di piccole lesioni, ma che colpivano anche le funzioni più semplici quando le lesioni erano più estese. Gradualmente, tuttavia, questi comportamenti venivano restituiti, e nel cervello relativamente poco differenziato del ratto, Lashley non fu in grado di scoprire regioni la cui estirpazione causasse particolari disordini del comportamento, oppure regioni primariamente responsabili del ripristino delle funzioni disturbate.

Sherrington e collaboratori (Leyton e Sherrington, 1917; Grünbaum e Sherrington, 1908) condussero esperimenti sulle scimmie allo scopo di studiare il ripristino di funzione dopo estirpazione di determinate aree del cervello ma, come negli esperimenti di Lashley, essi non riuscirono a risolvere il problema. Questi ricercatori estirparono l’area corticale motoria che presiede ai movimenti dell’arto superiore dell’animale sperimentale ed osservarono che la paralisi dell’arto che si sviluppava dopo l’operazione si risolveva gradualmente. Negli esperimenti successivi essi non furono in grado di stabilire quali fossero le aree maggiormente responsabili del ripristino dei movimenti dell’arto. Nessuna delle estirpazioni successive, che includevano parti della corteccia adiacenti o simmetricamente opposte alla lesione, veniva infatti seguita dalla scomparsa del movimento ripristinato. Sherrington ed i suoi collaboratori conclusero che la funzione ripristinata dovesse già essere localizzata in una regione differente del cervello sin da prima della lesione, senza tuttavia riuscire a spiegare i principi che governano questa dislocazione.

Naturalmente, i metodi sperimentali non possono essere utilizzati per studiare le lesioni cerebrali nei soggetti umani, ma le osservazioni cliniche hanno dimostrato che le lesioni corticali circoscritte causano disturbi di funzione di gran lunga molto più differenziati e duraturi rispetto agli animali. In certe condizioni alcuni di questi disturbi di funzione andarono incontro a regressione, e le funzioni furono parzialmente restituite. Era improbabile che alcuni sistemi particolari fossero responsabili di questo ripristino nei casi di deinibizione o di sostituzione da parte di centri simmetrici localizzati nell’emisfero integro, ma questo non poteva essere stabilito senza prima avere condotto una speciale analisi. Un’analisi di questo tipo richiede una conoscenza dettagliata dei sistemi corticali distrutti e di quelle relazioni interfunzionali ad opera delle quali il difetto viene compensato.

(b) I sistemi funzionali della corteccia cerebrale. L’esistenza di differenti concezioni circa la localizzazione psico-fisiologica all’interno della corteccia ha naturalmente condotto a differenti punti di vista circa la possibilità di ripristino compensatorio delle funzioni distrutte a causa di lesioni cerebrali.

I sostenitori del localizzazionismo rigido ritenevano che certe aree definite della corteccia rappresentassero gli “organi” o i “centri” dei processi mentali complessi (il “centro della scrittura”, il “centro della lettura” e il “centro per l’articolazione del linguaggio” sono esempi classici di questa concezione), ed erano costretti a concludere che la distruzione radicale di questi “centri” dovesse necessariamente comportare disturbi impossibili da compensare; nei casi in cui la compensazione aveva luogo essi non erano in grado di spiegare il fenomeno in maniera soddisfacente.

I ricercatori che, come Lashley, Thorndyke e Goldstein, si opposero al principio della localizzazione, incontrarono difficoltà simili. Essi ritenevano che l’intera corteccia cerebrale situata al di fuori delle aree di proiezione primaria fosse costituita da aree omogenee definibili di “associazione” o di “integrazione”, e sostenevano che le lesioni di ciascuna porzione di queste aree dovesse provocare, in linea di principio, le medesime conseguenze. Secondo questo concetto, una tale lesione conduce inevitabilmente ad un disordine diffuso dell’associazione corticale e ad un generale disturbo dell’abilità, con un effetto tanto più marcato quanto più estesa è la porzione di sostanza cerebrale rimossa. Gli “strutturalisti” espressero lo stesso concetto, ritenendo che l’estirpazione di un’ampia area del cervello “relega il comportamento ad un livello più primitivo” e conduce alla “disintegrazione delle modalità di comportamento più elevate e complesse”. La compensazione del difetto in casi come questi era considerata pressoché impossibile, ed anche ricercatori eminenti giunsero alla conclusione che l’unico aiuto plausibile per questi pazienti fosse la realizzazione di un ambiente nuovo e semplificato per limitare il difetto.

I concetti sopra menzionati non possono essere accettati. Gli psicologi si sono accorti che i processi psicologici complessi (chiamati in maniera arbitraria “funzioni mentali”) non sono espressione della responsabilità diretta di aree particolari, ma possono cambiare radicalmente la propria struttura nel corso dello sviluppo, e per questo stesso motivo il loro meccanismo centrale non può essere ricondotto a “centri” cerebrali fissi e circoscritti. Come mostreremo più avanti, queste funzioni sono in realtà dei sistemi funzionali complessi, e l’idea che tali sistemi non possano essere riorganizzati a prima vista sembra essere il risultato di un equivoco.

La pratica clinica mostra che tutte le aree della corteccia diverse da quelle di proiezione, che rappresentano la porzione maggiore della sua superficie, non sono una struttura omogenea, e le lesioni che colpiscono le porzioni anteriori o posteriori di queste aree nell’emisfero destro o sinistro danno luogo a sintomi completamente differenti. Di conseguenza, lesioni localizzate in parti diverse della corteccia (la cui struttura citoarchitrettonica è ora nota) causano disturbi di funzione la cui gravità non è per nulla proporzionale alla quantità di sostanza cerebrale distrutta. Una piccola lesione nell’area di Broca o nella regione parietale inferiore dell’emisfero sinistro può determinare disturbi di funzione incomparabilmente maggiori rispetto a quelli provocati da un ampio focolaio nella regione temporale destra. Da ultimo, le definizioni puramente quantitative in genere non possono descrivere adeguatamente le conseguenze di lesioni cerebrali localizzate. Come abbiamo mostrato in precedenza, ogni focolaio inattiva un particolare elemento fondamentale di un sistema funzionale che, in altre parole, possiede una “disposizione funzionale” e provoca determinate conseguenze, e mentre alcuni focolai producono disturbi a carico delle motivazioni “astratte” , altri non affliggono queste funzioni superiori del comportamento, anche se possono disturbare in maniera evidente talune operazioni specifiche.

Pertanto il problema della localizzazione funzionale nella corteccia e dei possibili modi di compensazione di un disturbo è molto complesso, e bisogna trovare nuovi metodi per la sua soluzione.

Il cervello umano può effettuare connessioni di gran lunga più intricate in confronto al cervello degli animali. Alcune di queste connessioni comparvero nei primi stadi della filogenesi, altre (come l’attività finalizzata o il linguaggio) nel corso dello sviluppo sociale e storico. Queste connessioni si andarono formando a partire da strutture neuronali a vari livelli di organizzazione, ognuna delle quali forniva un proprio contributo all’esecuzione di un’azione particolare.

Gli studi neurologici comparativi ai diversi livelli del sistema nervoso, gli studi citoarchitettonici, e le ricerche cliniche dell’ultima decade hanno rivelato il carattere complesso dei sistemi della corteccia umana ed hanno consentito la formulazione di determinati principi generali che governano la loro attività.

Ora sappiamo che le aree di proiezione corticale rappresentano solo una percentuale modesta dell’intero sistema funzionale di una determinata parte del cervello. La loro caratteristica particolare risiede nell’alta specificità delle strutture neuronali, che proiettano un particolare sistema

recettoriale o un sistema efferente all’interno della corteccia. La lesione di una determinata area di proiezione della corteccia pertanto determina difetti irreversibili di una funzione ben definita, in senso stretto (visione, sensibilità cutanea, impulsi motori, ecc.); di solito queste funzioni non possono essere ripristinate dopo la distruzione della parte corrispondente della corteccia, e la compensazione è possibile solo entro limiti molto ristretti.

Queste formazioni primarie della corteccia costituiscono i componenti indispensabili dei sistemi funzionali complessi, e formano il loro collegamento recettoriale o efferente. Alla distruzione di queste aree primarie seguirà un difetto della funzione specifica di un particolare organo, ma tutte le sintesi afferenti complesse che regolano quella funzione saranno ancora presenti. Le aree corrispondenti dei livelli superiori della corteccia rimangono integre, ed il paziente può eseguire facilmente un’azione particolare trasferendola dall’organo leso ad uno che è intatto. Allora un paziente con paresi di una delle mani può trasferire facilmente l’esecuzione dell’azione alla mano controlaterale, oppure un paziente con un difetto parziale del campo visivo potrebbe cominciare ad utilizzare la porzione residua del campo, e così via.

L’organizzazione dei processi afferenti ed efferenti che partecipano alla regolazione dei sistemi funzionali complessi dell’attività umana non termina nelle aree di proiezione della corteccia: essa comincia solamente. Le più complesse aree secondarie e terziarie della corteccia e le zone di proiezione esterna, giocano un ruolo essenziale in questa regolazione.

L’analisi della fine struttura neuronale della corteccia cerebrale ha dimostrato che ogni area di proiezione è circondata da zone strutturalmente simili ma caratterizzate da interconnessioni sviluppate più ampiamente (aree di associazione). Più ci allontaniamo dalle aree di proiezione, e più rilevanti diventano le altre aree, e meno evidenti saranno i tratti specifici delle aree di proiezione.

Indagini clinico-psicologiche hanno dimostrato che il ruolo primario svolto dalle aree più complesse della corteccia è quello di integrare i processi che si verificano nelle aree primarie. Come esempio potremmo prendere le aree secondarie della corteccia situate vicino alle aree visive di proiezione primaria. Numerose ricerche hanno dimostrato che la stimolazione di queste aree non evoca sensazioni visive informi, ma schemi complicati e ben definiti; la distruzione di queste aree non produce un difetto di una porzione particolare del campo visivo né un deterioramento generico della visione, ma una disintegrazione della percezione visiva; il paziente cessa di differenziare ciò che vede, e diventa pertanto incapace di riconoscerlo. Un esempio ugualmente valido, viene fornito dalla funzione dell’area premotoria. La stimolazione di quest’area non produce una singola contrazione motoria ma un movimento complesso; la distruzione di questa zona non determina la paralisi di nessun gruppo muscolare ma la disintegrazione dell’esecuzione fluida di movimenti complessi abituali oppure appresi.

Il ruolo delle aree corticali secondarie è allora quello di dotare l’eccitazione che sorge nelle aree corticali primarie di un’organizzazione funzionale definita, generalizzandola e predisponendola alla partecipazione nei sistemi funzionali corrispondenti. Questa trasformazione, che depriva l’eccitazione della propria specificità primaria, non significa, tuttavia, che i processi che hanno inizio nelle aree secondarie non siano specifici, o che essi siano in grado di realizzarsi in tutte le parti del cervello.

Le nostre osservazioni su pazienti con lesioni di queste aree dimostrano che la loro funzione ha sempre un carattere generalizzato; quindi le aree parieto-occipitali della corteccia, quando cessano di essere visive, rimangono aree per l’organizzazione spaziale e simultanea dell’esperienza, mentre le aree temporali restano principalmente connesse con l’organizzazione delle impressioni sensoriali successive, e l’area premotoria resta implicata nella regolazione di impulsi motori successivi.

È attraverso queste componenti specifiche che certe aree della corteccia vengono fuse nei sistemi funzionali, fornendo il campo efferente integrato necessario per questi sistemi.

Questi fatti aiutano a fornire una spiegazione sul ruolo della distruzione di una particolare area della corteccia nel determinare il destino di un particolare sistema funzionale, e a definire la possibilità di compensazione del difetto che ne risulta.

Le lesioni a carico delle aree di associazione della corteccia quindi non danno mai esiti omogenei ma determinano la disintegrazione di un sistema funzionale, che varia nel carattere in dipendenza del ruolo svolto dall’area distrutta nell’integrazione di quel sistema funzionale. Se l’area distrutta è situata in una zona di proiezione afferente della corteccia (nella porzione posteriore degli emisferi cerebrali), essa inevitabilmente distrugge uno degli elementi indispensabili per l’integrazione afferente, ed il sistema funzionale si disintegrerà. L’effetto funzionale, tuttavia, sarà differente se la lesione affligge direttamente le aree principalmente implicate nell’integrazione spaziale o simultanea della percezione (regioni occipitali e parieto-temporo-occipitali) oppure se questa lesione è situata entro le aree temporali secondarie della corteccia implicate nell’integrazione della sensazione uditiva complessa. Nel primo caso la lesione eliminerà l’elemento di base dell’organizzazione simultanea dei processi gnosici (e mnestici), e condurrà alla disintegrazione di quei sistemi funzionali che non possono esistere senza una tale organizzazione simultanea dell’esperienza (come i sistemi della gnosi spaziale e della prassia, delle operazioni matematiche, e delle categorie grammaticali); d’altro canto essa risparmierà quei sistemi il cui compito è quello di fornire l’organizzazione successiva dei processi (come il linguaggio vocale, l’ascolto musicale e, fino ad un certo punto, la scrittura fonetica). Se ad essere lesionate sono queste ultime aree, la situazione verrà naturalmente rovesciata. Nei due casi, tuttavia, la disintegrazione affligge solo l’aspetto esecutivo (o operazionale) dell’attività; il suo carattere propositivo (l’aspetto motivazionale) sarà conservato in entrambi i casi. Si svilupperà un quadro completamente differente in una lesione della regione anteriore (frontale) della corteccia, che riveste un ruolo completamente differente nell’organizzazione dei sistemi funzionali del cervello. In questi casi l’aspetto operazionale dei processi psicologici non soffrirà primariamente, ma la stabilità del carattere propositivo delle azioni (l’organizzazione della sua motivazione) verrà disturbato e i sistemi funzionali si disintegreranno ad un livello differente.

L’effetto funzionale di una lesione localizzata allora non dipende dalla vastità del danno apportato all’area di associazione della corteccia, che possiede una funzione non-specifica, ma dal ruolo svolto da questa area all’interno del sistema funzionale (queste relazioni vengono discusse in dettaglio nella monografia: A. R. Luria, Afasia traumatica, 1947).

Ora abbiamo un’idea più chiara circa la possibilità di compensazione dei disturbi di funzione post-lesionali sopradescritti. Mentre in una lesione delle aree primarie tutti i componenti motori o recettoriali di un dato sistema funzionale possono subire un danno, una lesione delle aree secondarie di integrazione distrugge uno degli elementi di base necessari per la creazione di campi afferenti integrati, e l’intero sistema funzionale invariabilmente ne soffrirà (anche se la composizione motoria e sensoriale dell’azione potrebbe rimanere invariata). Questa disintegrazione del sistema può venire compensata sia per mezzo della riorganizzazione interna dei suoi elementi risparmiati oppure attraverso la sostituzione del collegamento cerebrale andato perduto ad opera di un altro che è ancora intatto. Questo compito di reintegrazione del sistema funzionale può essere intrapreso, non “facilitando” gli impulsi che originano da aree corticali non-specifiche, ma includendo nel sistema funzionale quelle aree che sono in grado di compensare in una forma od in un’altra l’elemento perduto e di rendere possibile che un determinato problema possa essere risolto con mezzi differenti. Questo può avvenire, perché nel corso dello sviluppo vengono a crearsi complesse relazioni intersistemiche sulla base del comportamento e del linguaggio intenzionale e finalizzato, i quali consentono relazioni completamente nuove tra i centri superiori. La modificazione di questo compito potrebbe allora condurre alla creazione di sistemi funzionali nuovi, e quasi ciascuna area della corteccia cerebrale potrebbe essere inclusa in un sistema funzionale particolare al fine di reintegrare l’attività disturbata del cervello.

Discuteremo più avanti i principi che governano questa reintegrazione delle formazioni funzionali disturbate e la riorganizzazione dei sistemi funzionali.

(c) I principali tipi di riorganizzazione nei difetti dei sistemi corticaliLe caratteristiche delle forme principali di riorganizzazione e di compensazione dei difetti nei diversi sistemi cerebrali possono variare in maniera considerevole, a seconda di quale livello cerebrale sia stato lesionato e di quale collegamento del sistema funzionale sia stato interrotto.

Se la lesione causa la distruzione parziale dell’area di proiezione della corteccia, si potrebbe verificare una riorganizzazione diretta del sistema funzionale corrispondente che talvolta non raggiunge neppure il livello della coscienza, e la compensazione del difetto potrebbe essere in qualche modo automatica.

Un esempio di compensazione simile venne studiato da Fuchs (1920) e discusso da Gelb e Goldstein (1920). Questo caso sembrava così emblematico che questi autori tentarono di considerarlo come un prototipo di quell’intera classe di quelle che convenzionalmente potrebbero essere definite “riorganizzazioni elementari intrasistemiche”. Questo esempio riguarda la riorganizzazione dell’attività retinica che si verifica dopo la perdita parziale del campo visivo (quadrantanopsia), sviluppatasi quale esito di una lesione che colpisca la regione occipitale di un emisfero.

Questi autori studiarono persone ferite che erano affette da questo difetto del campo visivo, ed osservarono che essi non si lamentavano del fatto di riuscire ad utilizzare solo la metà o una parte del proprio campo visivo. I difetti di funzione riscontrati in questi pazienti erano considerevolmente minori di quelli che ci si sarebbero potuti aspettare in seguito ad una lesione che risparmiava solo una parte del campo visivo. Alcuni pazienti erano pressoché inconsapevoli di avere perso parte (per esempio la metà di destra) di entrambi i campi visivi, e prima dell’esaminazione essi erano convinti che solo un occhio (il destro) avesse perduto o parzialmente perdutola vista. Indaginispeciali dimostrarono che questa peculiare interpretazione del difetto era dovuta al fatto che i pazienti non avevano residuato solo un campo visivo parziale o “dimezzato”: il difetto del campo visivo induceva immediatamente una riorganizzazione funzionale, con il risultato che la macula, ora localizzata non al centro ma alla periferia del campo visivo residuo perdeva la propria dominanza, e al centro del nuovo campo visivo più ristretto si isolava un’area, che possedeva tutti i segni di un aumento della sensitività. In altre parole, si sviluppò un nuovo centro del campo visivo o una nuova “macula funzionale”, attorno alla quale si organizzò l’intero campo visivo residuo. Questa riorganizzazione sembrò essere insorta in modo automatico ed inconscio, per mezzo dell’adattamento diretto del campo visivo residuo all’oggetto che l’occhio doveva esaminare. Il risultato di questa organizzazione, che avviene con la partecipazione dei sistemi secondari della “più ampia sfera visiva”, è che il paziente, in luogo di un “campo visivo parziale”, sviluppava un nuovo campo visivo residuo che, tuttavia, possedeva tutte le qualità del campo normale e dava al paziente un adattamento visivo relativamente normale.

Questa riorganizzazione intrasistemica può essere osservata di frequente nelle lesioni delle aree corticali di proiezione e di altri sistemi funzionali.

Se una lesione cerebrale causa una paresi della mano, l’inattivazione della mano paretica ed il trasferimento di funzioni semplici (afferrare, lanciare) alla mano sana sopraggiunge immediatamente e in modo completamente automatico. Burdenko osservò questo trasferimento anche prima che il paziente riacquistasse la coscienza, e sulla base di questa osservazione egli descrisse un singolare livello inferiore di “consapevolezza automatica”. Come risultato di questa riorganizzazione (in particolare dopo una paresi della mano destra dominante), il paziente di solito non presenta un “campo motorio” deforme o dimezzato circoscritto alla mano non dominante che si potenzia, ma sviluppa molto velocemente un nuovo campo motorio riorganizzato. In questo campo la mano sinistra prende il posto originariamente occupato dalla destra, e tutte le funzioni della mano destra vengono ora trasferite alla sinistra (in modo speculare) (non facciamo riferimento al trasferimento alla mano sinistra di attività complesse come la scrittura. Il trasferimento positivo di questa forma di prassia dipende soprattutto dal grado di dominanza dell’emisfero sinistro e da tutti i fattori latenti di mancinismo). Questa riorganizzazione avviene automaticamente e sembra avere tratti così profondi che spesso il paziente comincia a chiamare “destra” la sua mano sana e riorienta l’intero spazio per corrispondere alla nuova organizzazione del campo motorio. Forme simili di plasticità intrasistemica elementare della funzione motoria sono state osservate da autori che descrissero come, dopo una paresi dovuta a lesione delle vie piramidali, le funzioni dell’arto superiore venissero involontariamente trasferite dalle parti distali a quelle più prossimali, e dai componenti piramidali dell’atto motorio a quelli extrapiramidali, e anche come, per mezzo di queste potenzialità residue, il paziente provasse ad eseguire azioni complesse per le quali in precedenza utilizzava l’arto sano.

Tutti questi casi di riorganizzazione automatica della funzione possono avvenire a condizione che le divisioni superiori della corteccia non direttamente connesse con gli impulsi afferenti provenienti dagli organi sensoriali siano conservate, e possano eseguire l’integrazione della funzione particolare (la “più ampia sfera visiva”, l’area corticale parietale inferiore, la postcentrale e la premotoria). Se queste aree sono presenti e l’integrazione afferente viene di conseguenza conservata, il paziente riesce ad adattarsi con successo all’obiettivo e può riorganizzare automaticamente le operazioni necessarie per l’esecuzione delle azioni finalizzate.

La modalità di riorganizzazione dei sistemi funzionali è completamente differente nelle lesioni delle aree secondarie della corteccia che si accompagnano alla disintegrazione dei processi neuropsicologici complessi.

Le lesioni di un’area secondaria della corteccia vengono solo raramente accompagnate dalla perdita completa di una qualsiasi funzione elementare (visione, udito, sensibilità, movimento). Ancora più di rado esse conducono ad un disturbo completo ed irreversibile dell’intero sistema funzionale. Molto più spesso, le lesioni a carico di queste aree di integrazione conducono alla disintegrazione di un particolare sistema funzionale che non esegue più quel determinato tipo di integrazione afferente che produceva prima della lesione.

Pertanto il paziente continua a percepire gli stimoli visivi, ma queste sensazioni sono indistinte, mal definite, talvolta incoerenti, caotiche, e non sono unificate in forme chiare ed obiettive. Egli continua ad udire i suoni che raggiungono l’orecchio, ma il suo udito è organizzato in modo inadeguato e, di conseguenza, egli non riesce a discriminare le qualità fonetiche delle parole pronunciate; percependo i suoni del linguaggio come rumori diffusi ed inarticolati, egli non è in grado di comprendere ciò che gli viene detto. In un paziente con una lesione dell’area motoria secondaria (le aree postcentrali o premotorie), la potenza muscolare viene conservata ma i movimenti sono così carenti sotto il profilo della precisione dell’organizzazione spaziale in alcuni casi, così scarsamente coordinati in altri, e così incapaci di denervare l’azione precedente, che l’esecuzione di movimenti distinti diventa davvero difficoltosa. In tutti questi casi il quadro patologico non è caratterizzato dalla perdita di una qualsiasi azione particolare ma dalla sua disintegrazione quale esito del disturbo di un qualche elemento di base necessario per la sua organizzazione

I clinici osservano spesso condizioni come queste nelle lesioni cerebrali.

I casi relativamente lievi presentano una somiglianza con la “astenia locale della funzione” di Lebedinskii e Chlenov; quando le lesioni sono più estese (e particolarmente complicate) si può avere il quadro dell’agnosia e dell’aprassia (o disprassia).

I fisiologi hanno studiato la natura dei processi che concorrono alla comparsa di questi disturbi “astenici” della funzione. Pavlov e collaboratori analizzarono questi fenomeni negli stadi iniziali delle loro ricerche. Babkin, Eliasson, Makovskii ed altri ricercatori hanno analizzato la disintegrazione dell’analizzatore acustico, ed Orbeli, Zelenyi, Kudrin ed altri hanno analizzato i disordini dell’analizzatore visivo. Questi studi hanno dimostrato che la distruzione di un analizzatore corticale negli animali conduce a grossolani disturbi del’attività di associazione dell’analizzatore in questione. I processi che originano in questo analizzatore sono molto meno finemente differenziati e diventano più diffusi; essi irradiano molto più facilmente, possono essere concentrati su una determinata classe di stimoli solo con difficoltà, e non possono essere mantenuti entro i limiti della necessaria struttura simultanea o consecutiva. Naturalmente, in queste condizioni l’attività patologica degli analizzatori non può fornire la sintesi nervosa richiesta per la creazione di un campo afferente complesso e per l’organizzazione di un sistema funzionale complesso.

Se l’analisi e l’integrazione degli stimoli che raggiungono un animale dall’ambiente circostante vengono distrutte, la sua attività ne risulta seriamente compromessa. Nell’Uomo, tuttavia, il disturbo della funzione normale delle aree corticali secondarie potrebbe avere conseguenze particolarmente serie. L’intera vita mentale dell’Uomo, con la sua attività finalizzata ed il linguaggio, dipende in massimo grado dal lavoro di queste aree della corteccia. Una lesione di queste aree rimuove quegli elementi di base necessari per il corso normale di tali intricati sistemi funzionali come il linguaggio, il pensiero verbale, la lettura e la scrittura, le operazioni matematiche e l’attività costruttiva; anche una lesione relativamente modesta di queste aree corticali di integrazione può condurre a manifestazioni molto gravi di disintegrazione funzionale. Possiamo illustrare questa condizione con due esempi.

Una lesione delle aree corticali secondarie di integrazione della regione temporale sinistra, anche se non disturba l’udito, nondimeno rende l’analizzatore acustico meno capace di differenziare. Ne risulta che, lettere o suoni con caratteristiche fisiche molto simili e che differiscono solo per piccoli dettagli (come le lettere “b” e “p”, “z” e “s”, “d” e “t”) non vengono più differenziate e vengono percepite come varianti indefinite del medesimo suono. Nei disturbi più gravi di queste aree le funzioni di differenziazione dell’analizzatore acustico subiscono un danno anche maggiore e l’orecchio umano cessa di discriminare suoni anche molto differenti del linguaggio, che vengono ora percepiti come rumori inarticolati. In tutti questi casi il disturbo è quello della disintegrazione del “sistema fonemico del linguaggio”, che normalmente assicura la differenziazione precisa di suoni distinti e, in condizioni patologiche, dopo la distruzione dell’analizzatore acustico, perde questa capacità [per ”sistema fonemico del linguaggio” si intende il sistema dei segni caratteristici di un linguaggio che danno un significato differente alle parole che hanno suono simile (come “dot” e “tot”, “ball” e “pall”), e quindi rende possibile la differenziazione tra suoni fisicamente molto simili. Il sistema fonemico, che differisce da una lingua ad un’altra, fa sì che l’ascolto venga organizzato ed articolato. La teoria dei sistemi fonemici fu sviluppata da Baudoin de Courtaine, Trubetskii, Shcherba ed altri linguisti, e lo abbiamo utilizzato per studiare la patologia del cervello (vedi la dissertazione: A. R. Luria, La teoria dell’afasia alla luce della patologia cerebrale, 1940; e la monografia: A. R. Luria, Afasia traumatica, 1947, Cap. 4)].

L’analizzatore acustico che ha perduto la capacità di differenziare non può neppure discriminare tra suoni distinti né categorizzare le differenze percepite, e di conseguenza non è in grado di riconoscere i suoni del linguaggio. Nelle lesioni di questo tipo, l’analizzatore acustico distrutto diventa quindi incapace di organizzare le sensazioni uditive in un sistema fonemico chiaro; queste sensazioni disorganizzate non vengono più generalizzate all’interno di un sistema, e vengono percepite solo come un rumore indifferenziato.

Questo fenomeno ha conseguenze davvero serie. Privo del suo carattere sistematico e “fonemico”, l’udito cessa di differenziare i suoni del linguaggio, ed il paziente, anche se le sue sensazioni acustiche sono conservate, presenta la sindrome dell’afasia sensoriale (acustica). I suoni del linguaggio, avendo perduto la propria costanza, non vengono più trattenuti per un tempo significativo, la capacità del paziente di memorizzare diviene instabile, ed egli non riesce più a pensare precisamente nei termini delle parole. L’inadeguatezza dell’analizzatore acustico rende il paziente incapace di suddividere una parola nei suoni che la compongono e di separarli l’uno dall’altro, ed avendo generalizzato le varianti individuali di un suono simile, egli non è in grado identificarle con le lettere. I disturbi dell’organizzazione fonemica dell’udito conduce inevitabilmente alla disintegrazione della capacità di scrivere e, entro certi limiti, a disturbi della lettura. Un difetto di uno degli elementi essenziali (udito fonemico) conduce allora alla disintegrazione di funzioni complesse ed importanti come il linguaggio e la scrittura.

Come possiamo superare questa dispersione dei processi nervosi, e come possiamo trasferire le differenze appena percettibili dei suoni entro il piano della consapevolezza, allo scopo di ripristinare la funzione di differenziazione dell’analizzatore acustico che è andata perduta?

In questi casi di afasia sensoriale, i tentativi di compensare il difetto persistente attraverso un semplice allenamento erano inevitabilmente destinati al fallimento a causa della dispersione patologica della funzione dell’analizzatore corrispondente; non ebbe luogo alcuna compensazione automatica di questi difetti. Fu necessario riorganizzare l’attività dell’analizzatore, includendolo in nuove relazioni sistemiche, per utilizzare le potenzialità residue e compensare il difetto contrastandolo in qualche modo.

Le soglie di discriminazione tra stimoli strettamente collegati non sono costanti ma possono variare entro un ventaglio piuttosto ampio. Per aumentare la sensibilità talvolta è sufficiente attivare un altro sistema afferente (Kravkov, 1944), e talvolta questo è utile per creare una situazione preliminare che attiva nel paziente l’aspettativa del risultato corrispondente (Binet, 1889); in altri casi la presenza del proposito o della “mobilizzazione della volontà” è sufficiente da sola per determinare un marcato incremento nelle soglie di sensibilità differenziale (Kekcheev, 1947).

Tuttavia, il modo migliore per aumentare la capacità di differenziazione, è quello di introdurre lo stimolo all’interno di un qualche sistema funzionale di importanza vitale. Gli psicologi animali hanno stabilito che la sensibilità differenziale degli animali ad un determinato stimolo si moltiplica se esso comincia ad agire come un segnale in una situazione che interessa direttamente l’animale. Questo fatto venne verificato da Henning e Buitendijk per l’olfatto, da Frisch per la visione, e da numerosi ricercatori per l’udito. Risultati simili vennero ottenuti da Leont’ev ed altri nel corso di indagini condotte su soggetti umani. Creando una situazione nella quale l’elemento in questione cominciava ad assumere una funzione di orientamento con riferimento al compito principale, Leont’ev scoprì un incremento improvviso nella sensibilità differenziale dei soggetti, che superava di molte volte il livello normale. La costruzione di un sistema funzionale in cui i segnali particolari (anche quando essi sono difficilmente distinguibili) giochino un ruolo di orientamento in una situazione definita è la prima condizione per la compensazione del difetto nella funzione cerebrale.

La seconda condizione per l’eliminazione del carattere patologicamente diffuso dei processi recettivi è la creazione di un “sistema di generalizzazione” definito per mettere in grado il paziente di portare ordine nel processo di analisi e di discriminare tra elementi strettamente collegati e quasi indistinguibili, ponendoli in gruppi differenti; la creazione di un sistema di generalizzazione consente al paziente di integrare fenomeni ampiamente differenti per quanto riguarda la loro forma esteriore, di scoprire le loro caratteristiche comuni e di riferirsi ad essi come varianti che appartengono alla medesima classe. Questa è una condizione particolarmente importante perché il difetto principale della funzione del sistema corticale colpito non è tanto rappresentato dal disturbo della funzione elementare (perdita dell’udito, della visione e così via) quanto dal fatto che i processi neurologici sono divenuti diffusi, e gli stimoli strettamente collegati non sono più differenziati in modo chiaro.

La struttura di questa generalizzazione, e questa organizzazione entro sistemi definiti, non è una caratteristica nuova per l’Uomo. Nel corso dell’ontogenesi umana l’udito originariamente diffuso ed inarticolato venne organizzato con l’aiuto di un simile sistema di generalizzazione insito nel linguaggio parlato. Quando un piccolo infante (come dimostrato da Shvachkin [N. Kh. Shvachkin, “Lo sviluppo della percezione fonemica del linguaggio negli infanti”. Izv. Akad. Pedagog. Nauk. R. S. F. S. R., N° 13 (1948)] comincia a parlare in maniera consapevole, nei fatti riorganizza il proprio udito sulla base del sistema fonemico permanente del linguaggio parlato. Praticando la conversazione, il bambino apprende che i segnali dei suoni pronunciati e quelli inespressi (“Dot” e “Tot”, “Zeal” e “Seal”) servono a distinguere le parole che hanno significato differente, e quindi costituiscono un presupposto essenziale nella struttura fonetica del linguaggio; d’altro lato, la stessa parola può essere pronunciata con diverso tono, intensità o altezza della voce senza che essa venga a perdere il proprio significato oggettivo. In questo modo le potenzialità uditive naturali del bambino vengono organizzate con la pratica, ed egli sviluppa un udito fonemico generalizzato.

Questa fase di organizzazione precoce dell’udito viene solitamente seguita da un secondo stadio di organizzazione consapevole durante il periodo dell’educazione. Lo scolaro impara dapprima le lettere, e così ottiene un nuovo e potente strumento con il quale può riconoscere le varianti dello stesso suono ed esprimerle con un singolo segno grafico; per converso, egli può distinguere tra suoni simili che appartengono a differenti gruppi fonemici ed indicarli con lettere differenti. L’apprendimento della lettura e della scrittura rappresenta quindi il secondo metodo di differenziazione coscia tra suoni differenti.

Il complicato corso dell’organizzazione concettuale dei processi psico-fisiologici elementari ci permette di identificare la via principale che conduce alla compensazione dei difetti dei singoli sistemi funzionali. Se un sistema funzionale ha subito una distruzione parziale a causa di una lesione e perde il suo grado normale di differenziazione, senza oltrepassare i suoi limiti possiamo ora riorganizzare la sua funzione includendolo in una forma speciale di attività. Dato che la funzione è già passata attraverso cambiamenti profondi nel corso dello sviluppo ad opera della mediazione del linguaggio parlato (che più tardi si automatizzò e divenne un modus operandi del particolare sistema funzionale), possiamo riportarla indietro su questa sua via ripercorrendo, a partire dai primi disegni grafici, l’intero lavoro della discriminazione conscia tra segni di differente significato, includendoli nel sistema fonemico del linguaggio. La riorganizzazione dell’udito sulle basi di un sistema del linguaggio acquisito consciamente permette il trasferimento delle differenze impercettibili tra i suoni percepiti entro un sistema di differenze fonetiche precisamente riconoscibili. Questo metodo di riorganizzazione psicologica dei processi fisiologici colpiti è tipica della riorganizzazione dei sistemi cerebrali che hanno subito una lesione.

I tentativi per superare la diffusione patologica dell’analizzatore acustico in seguito a lesioni delle aree secondarie della regione temporale sinistra mirano di solito alla riorganizzazione concettuale del sistema danneggiato. Il paziente che non riusciva a discriminare direttamente tra suoni del linguaggio complessi o foneticamente simili era ora in grado di classificarli entro un sistema di parole dal significato differente; si fece notare al paziente che i suoni pronunciati e quelli che non vengono pronunciati hanno significati differenti e sono indicati da lettere differenti, come nelle parole “dot” e “tot”; anche se questi suoni vengono indicati da lettere differenti, le varie sfumature dello stesso suono (come il suono della “t” in “tone” e in “tune”) vengono rappresentati dalla stessa lettera. Con questo metodo le sottili differenze del suono, percepite diffusamente dal paziente, divennero essenzialmente significative e furono generalizzate in gruppi determinati, dove divennero oggetti sul piano della consapevolezza del paziente; il fatto che queste caratteristiche, apparentemente così insignificanti, erano ora dotate di significato, aumentò l’abilità del paziente ad operare discriminazioni. Questa riorganizzazione creò una nuova forma indiretta di udito e permise al paziente di superare il difetto causato dalla lesione; quando il paziente provava direttamente ad apprezzare la differenza tra i suoni “z” e “s” o l’identità dei suoni “sh” e “ch” e falliva, egli poteva ancora classificare questi suoni entro gruppi appropriati e riconoscere in “z” la stesso suono contenuto in “zeal”, e in “s” lo stesso suono che è in “seal”.

La riorganizzazione concettuale ci ha dunque dato la possibilità di superare i difetti della funzione fisiologica del sistema e di compensare il difetto sensoriale facendo ricorso alle forme superiori della funzione corticale, il metodo fondamentale della compensazione. Questo tipo di compensazione ovviamente non avvenne immediatamente o istintivamente, ma richiese uno speciale allenamento prolungato. Questo allenamento conscio è il tratto più caratteristico della riorganizzazione “concettuale” dei sistemi funzionali.

Questo esempio di compensazione dell’analizzatore acustico danneggiato per mezzo della riorganizzazione concettuale della sua attività non è un caso speciale, e lo stesso principio può essere applicato alla compensazione di difetti neurodinamici di funzione simili in altri sistemi del cervello.

Questo principio è, forse, più chiaramente applicabile nei casi dove è presente l’inerzia patologica dei processi nervosi, in particolare nelle ferite profonde dell’area premotoria che si associano a disturbi della regolazione corticale al livello della sinergia (Bernshtein). In questi casi (che discuteremo più dettagliatamente oltre) l’eccitazione, una volta iniziata, non cessa immediatamente e disturba l’impulso nervoso successivo, mostrando inerzia patologica [per una descrizione di questo fenomeno vedere: A. R. Luria, “Il disturbo dell’orientamento e dell’azione nelle lesioni cerebrali” (Trudy Inst. Psikhol. Akad. Nauk Gruzii, 1946); e A. R. Luria, “Il disturbo e la compensazione della funzione nelle lesioni dei sistemi frontali” (Lettura data alla Sessione Pavlov della Divisione di Scienze Biologiche, Accademia delle Scienze dell’U. S. S. R., Marzo 1944). Questo problema al momento (1948) viene studiato nel nostro dipartimento da N. A. Filippycheva e B. G. Spirin]. Il passaggio al componente successivo dell’atto motorio diviene quindi impossibile ed invece di eseguire un’azione complessa il paziente può solo ripetere la sua componente iniziale. Certi casi di afasia motoria sono esempi tipici di questi difetti. In questi casi i suoni o le sillabe non possono essere interrotte immediatamente subito dopo essere state pronunciate, spezzano così il suono o la sillaba successiva, e la libera articolazione delle parole diventa impossibile (A. R. Luria, Afasia traumatica, Cap. 4, 1947). Il problema in questi casi è allora quello di superare l’inerzia patologica dell’eccitazione e di trovare modi per facilitare il passaggio da un pattern di innervazione al successivo.

L’inerzia patologica non può essere superata con i metodi fisiologici consueti. Molto spesso il paziente non è in grado di pronunciarela parola Russa”mukha” perché non è in grado di interrompere la sillaba “mu” subito dopo averla pronunciata. Il suo sforzo per passare alla sillaba successiva “kha” non ha successo ed egli dice “mu-ma” oppure “mu-mu”. Di regola in questi casi né l’inibizione interna dell’articolazione facendo una lunga pausa, né l’inibizione esterna ad opera di un qualche agente esterno si dimostrano a lungo efficaci.

Anche qui la riorganizzazione concettuale (psicologica) dei processi nervosi patologici ci permette di superare l’inerzia originale dell’innervazione. Utilizzando il metodo descritto prima e facendo leva sulla mobilità del “secondo sistema di segnalazione” del linguaggio, possiamo introdurre le due sillabe successive in due campi concettuali completamente differenti, e senza prolungare la pausa esterna da interporre possiamo incrementare di molto la distanza “concettuale” interna che le separa. È sufficiente, per esempio, pronunciare le due sillabe a differenti “registri” (per esempio, in toni che esprimono emozioni differenti) oppure associarle a situazioni dal significato differente (paragonare “mu” al muggito di una mucca, e “kha” alla risata – “ha-ha”), ed è possibile poi separarle fino al punto che il paziente può passare da una all’altra senza difficoltà (osservazioni fatte da Kaufman, che lavora nel nostro laboratorio). In questi casi la riorganizzazione psicologica dei processi nervosi ci permette di superare le loro caratteristiche patologiche.

Il principio della riorganizzazione psicologica di un sistema fisiologico allo scopo di superare un difetto nella sua funzione non si applica solo ai casi in cui il difetto assume la forma di una perdita di differenziazione. Potremmo sperimentare con profitto l’effetto di tale riorganizzazione nel campo ristretto dei processi psichici che insorgono in condizioni patologiche.

Il fatto che ogni disordine di funzione cerebrale deprivi il paziente della capacità di comprendere e di trattenere un numero di elementi simultaneamente presenti è stato spesso osservato nei casi di lesione cerebrale. In alcuni casi questa limitatezza di ricezione e memorizzazione era molto marcata. Balint ha descritto il caso di una lesione bilaterale del lobo occipitale, che rendeva il paziente incapace di percepire simultaneamente numerosi oggetti. In questo caso il difetto della funzione – la limitazione del campo visivo – era di una gravità non comune. Una restrizione simile della gamma della percezione simultanea è un sintomo molto frequente nelle lesioni della regione occipitale, come vedremo più avanti. La restrizione del “campo della lettura” in cui la percezione simultanea è limitata ad una o due lettere è un tipico esempio di questo tipo di disordine ottico-gnosico. Una simile restrizione del campo della percezione può essere osservata anche nei difetti gnosici uditivi.

La compensazione delle lesioni cerebrali fa allora sorgere una domanda: è possibile superare questo disordine e può il campo recettoriale (o mnestico), limitato a causa della lesione cerebrale, essere ampliato di nuovo?

La gamma dei processi recettivi, come l’acuità della percezione o la soglia della discriminazione, non ha limiti strettamente definiti. L’indagine del campo visivo elementare dimostra che esso si modifica da caso a caso, e che la “area utile” della retina varia in dipendenza di numerosi fattori (Snyakin). Si può assumere che la capacità recettiva normale sia molto limitata e permetta a non più di uno o due elementi di entrare nel campo della consapevolezza; la normale gamma della percezione è allora la risultante di operazioni recettoriali attive e complesse. Il tratto più caratteristico dal quale dipende la gamma della percezione è, tuttavia, la sua organizzazione. Se gli elementi percepiti sono uniti soltanto in una struttura definita, allora il campo della percezione cambia e, in determinate condizioni, diviene più ampio. Lo stesso effetto viene prodotto attraverso la generalizzazione degli oggetti percepiti in una struttura avente significato comune, in modo tale che il soggetto può percepire simultaneamente molti più elementi di quelli che percepirebbe se lo stimolo fosse isolato e disorganizzato. Quanto abbiamo detto si applica allo stesso modo alla gamma dei processi di memorizzazione, e si potrebbe assumere che lo sviluppo della memoria consista essenzialmente nelle modificazioni della forma di generalizzazione degli oggetti che devono essere memorizzati.

Se una lesione disturba la funzione della corteccia occipitale, essa potrebbe causare una limitazione emianopsica del campo visivo; molti osservatori (Wilbrandt, Preobrazhenskaya, le nostre stesse osservazioni) hanno mostrato, tuttavia, che il campo della percezione di un testo letto dal paziente (il “campo della lettura”) è di sovente limitato (dopo una lesione delle aree secondarie della corteccia occipitale) in modo molto più severo del campo visivo ordinario, così che il paziente non può percepire più di una o due lettere alla volta mentre sta leggendo. Il difetto è molto stabile e anche un lungo allenamento non permette di superarlo. Talvolta solo modificando l’organizzazione concettuale di questo campo, esso si amplia immediatamente. Non è sempre necessario cambiare la struttura esterna degli elementi di questo campo: spesso una modifica della loro significato psicologico interiore è tutto ciò che serve.

In uno dei nostri esperimenti, per esempio, un paziente che aveva subito una lesione della regione occipitale non riusciva a percepire più di due forme astratte e a riprodurne successivamente il profilo; se queste forme venivano capovolte in modo da farle sembrare sagome di lettere che formavano parole reali, egli poteva riconoscere una configurazione di tre lettere senza difficoltà (Fig. 3).

Fig. 3. Una serie di profili di lettere per testare l'ampiezza del campo della percezione

Questo cambiamento era dovuto all’organizzazione degli elementi in una singola struttura intelligibile, che reintegrava il campo della percezione e distingueva tra il suo centro concettuale e la periferia. In questo caso il campo visivo era una funzione dell’organizzazione concettuale degli elementi percepiti, e l’organizzazione concettuale stessa poteva essere modificata a piacimento [Osservazioni fatte insieme a N. Zislina hanno dimostrato che un campo visivo, ristretto a causa di emianopsia, poteva essere ampliato con successo attraverso l'organizzazione concettuale dei suoi elementi. Se, per esempio, un paziente che aveva subito una lesione della regione parieto-occipitale destra con emianopsia sinistra poteva percepire solo il lato destro di una fotografia che raffigurava oggetti isolati e distinti, il campo visivo diventava molto più ampio non appena gli venivano mostrate foto nelle quali gli elementi separati erano uniti da collegamenti aventi un senso definito]. Gli esperimenti in cui abbiamo provato ad ampliare il campo della percezione successiva ed il campo della memorizzazione per mezzo della riorganizzazione hanno messo in luce possibilità di compensazione simili.

Gli esempi di riorganizzazione concettuale dei sistemi funzionali forniti in precedenza dimostrano un principio che può essere applicato alla compensazione di un difetto. In tutti questi casi il parziale ripristino della funzione è avvenuto attraverso la riorganizzazione interna dei sistemi funzionali, che differisce dalla forma elementare della riorganizzazione diretta per il fatto che il processo viene trasferito ad un livello di organizzazione più elevato, avviene sempre in maniera conscia, e di solito può essere ottenuto solo con un allenamento prolungato e specifico.

La riorganizzazione concettuale dei sistemi danneggiati che abbiamo descritto non è l’unico metodo per il ripristino delle funzioni corticali disturbate. Essa è adatta a quei casi in cui il sistema corticale leso non è completamente inattivato ma funziona in maniera patologica. In molti altri casi i sistemi complessi dell’attività corticale si disintegrano perché uno degli elementi essenziali di questi sistemi viene distrutto completamente a causa di una lesione localizzata. Si possono osservare casi simili nelle lesioni della corteccia occipitale in seguito alle quali il paziente non riesce a riconoscere le forme, oppure dopo una lesione postcentrale che distrugge la regolazione propriocettiva e gli impulsi afferenti raggiungono la destinazione sbagliata. Casi simili possono avvenire nelle lesioni dei sistemi premotori, quando la sequenza corretta degli stimoli successivi diviene disorganizzata e la realizzazione di movimenti melodiosi risulta impossibile. In questi casi la riorganizzazione della funzione lesa deve seguire una via differente e potrebbe assumere la forma di compensazione intersistemica.

In precedenza abbiamo affermato che un sistema funzionale basato sui livelli superiori di organizzazione corticale necessita sempre di un campo afferente integrato. Di regola, un tale campo afferente non è mai confinato ad un singolo sistema. Studi ontogenetici (Shchelovanov, 1926; Denisova e Figurin, 1929) hanno dimostrato che queste sintesi afferenti si basano quasi sempre su più di un recettore. Ogni movimento coordinato della mano, e ancora più, ogni azione del linguaggio, della scrittura, e così via, implica la partecipazione di molte forme differenti di stimoli afferenti, tra cui di solito si può distinguerne un gruppo che può essere definito “dominante” (Anokhin). L’articolazione del linguaggio è un esempio di un sistema funzionale con molti tipi di recettori; il ruolo dell’analisi uditiva nelle azioni della scrittura è un esempio del ruolo dominante di un sistema recettoriale. Nello sviluppo di un comportamento, il ruolo relativo dei sistemi afferenti individuali può cambiare e in diversi stadi di sviluppo altri sistemi afferenti possono diventare dominanti.

La struttura complessa del campo afferente, che assicura la normale attività dei sistemi funzionali, rappresenta la base della riorganizzazione inter-funzionale; quando un componente del campo afferente viene perduto esso può sempre essere sostituito da un altro, determinando in questo modo la reintegrazione del sistema funzionale.

Una tale riorganizzazione intersistemica è relativamente limitata negli animali ma ha ampie possibilità nell’Uomo, i cui sistemi funzionali sono così complessi che determinati compiti possono essere in pratica eseguiti in modi completamente differenti; quasi ogni componente danneggiato può essere sostituito da un altro, che subentra al suo posto nel sistema reintegrato.

Il fatto che componenti completamente diversi, che un tempo svolgevano funzioni molto differenti, possano essere inclusi facilmente in nuovi sistemi funzionali, è stato dimostrato dall’analisi dello sviluppo storico e ontogenetico dell’attività mentale dell’Uomo. Quando, per esempio, egli utilizzò una tacca o un nodo per ricordare qualcosa più facilmente, in questo modo egli assegnò ad un oggetto visto con i suoi occhi la nuova funzione di “stimolo condizionato” e, introducendo una forma ottica nel sistema mnestico, forgiò simultaneamente un nuovo collegamento nelle relazioni interfunzionali [lo sviluppo di nuove relazioni interfunzionali nel corso dello sviluppo mentale venne dapprima indagato da Vygotskii (Vygotskii e Luria, 1930; Vygotskii, 1934]. L’intera storia successiva dello sviluppo mentale e, in particolare, lo sviluppo mentale del bambino può essere considerata come la riorganizzazione dei sistemi funzionali di base e l’interscambio di quelle operazioni attraverso le quali l’Uomo comincia ad eseguire compiti diversi.

Gli esempi di compensazione di un difetto attraverso la riorganizzazione intersistemica sono comuni nelle descrizioni cliniche delle lesioni dei livelli elementari del sistema nervoso centrale. Si ritrova un classico esempio di tale riorganizzazione nella tabe dorsale, quando il cammino, divenuto impossibile a causa della perdita della sensibilità profonda, viene ripristinato con l’aiuto di una riorganizzazione radicale, e quando la perdita del controllo cinestesico viene sostituita dalla visione oppure dal controllo cinestesico degli arti superiori: il paziente comincia a camminare con l’aiuto di un bastone, con cui si sente a proprio agio e riesce ad apportare le correzioni necessarie ai propri movimenti.

Un altro esempio famigliare viene osservato nel Parkinsonismo. In questa malattia i disturbi grossolani dei livelli sinergici sottocorticali rendono impossibile il movimento prolungato in un ambiente uniforme; il cammino non assistito (in particolare con gli occhi chiusi) diventa allora molto difficoltoso per il paziente e dopo pochi passi sfocia in un tremore generalizzato, mentre un incremento del tono muscolare ostacola ogni ulteriore movimento del paziente. Anche qui, è sufficiente riorganizzare il sistema funzionale della deambulazione, elevandolo ad un livello superiore ed includendo componenti visive che precedentemente non prendevano parte al sistema, e il cammino diventerà ancora possibile. Il paziente che è completamente incapace di camminare su un pavimento liscio può fare dei passi facilmente se scavalca delle linee tracciate per terra. La sostituzione di un ambiente uniforme con un ambiente multiforme, e la sostituzione degli impulsi afferenti cinestesici con impulsi visivi permette al paziente di modificare radicalmente il sistema e di fondarlo su nuovi elementi costitutivi (discuteremo oltre alcune evidenze sperimentali relative alla riorganizzazione dei sistemi motori in lesioni simili).

La riorganizzazione funzionale intersistemica è un metodo di ripristino di funzione che non è confinato alle lesioni dei livelli inferiori del sistema nervoso centrale. Essa può essere osservata di frequente nelle lesioni corticali localizzate. Si può osservare una riorganizzazione simile nei disordini corticali propriocettivi (quando l’introduzione del controllo visivo permette al paziente di costruire uno schema di prassia su nuovi fondamenti); una perdita di fluidità dei movimenti abituali nei casi di lesione dei sistemi premotori può essere compensata dalla riorganizzazione funzionale, quando i pattern dinamici perduti vengono rimpiazzati da impulsi afferenti addizionali che originano dalle parti posteriori integre dell’emisfero. Da ultimo, tale riorganizzazione è sviluppata al massimo grado nelle forme complesse di attività quali il linguaggio, la scrittura, il calcolo, e così via. La clinica pratica fornisce esempi di casi in cui un paziente che aveva perduto la capacità di calcolare a mente, era ancora in grado di recitare la tabellina con l’aiuto di un’immagine visiva dei numeri che dovevano essere moltiplicati, oppure casi in cui un paziente compensava la propria incapacità di percepire direttamente le forme tracciando il profilo dell’oggetto per mezzo dei movimenti oculari; questi casi mostrano quanto sia ampia la varietà delle sostituzioni intersistemiche che possono essere utilizzate per ripristinare una funzione perduta in seguito ad una lesione localizzata del cervello.

(d) Le condizioni di base per la rieducazione nelle lesioni che colpiscono i sistemi del cervello. Abbiamo descritto le due fondamentali modalità di ripristino delle funzioni cerebrali danneggiate per mezzo della riorganizzazione. Entrambe le modalità sono possibili nei casi in cui i motori fondamentali dell’attività siano risparmiati e la lesione cerebrale non abbia causato un decremento grossolano e generalizzato del livello dell’attività corticale e in quelli in cui la lesione cerebrale localizzata non abbia distrutto completamente le aree secondarie dell’integrazione corticale. In altri termini, la riorganizzazione dei sistemi funzionali è primariamente possibile quando i sistemi sono danneggiati in conformità con un determinato pattern topologico – in quei casi in cui il processo patologico distrugge gli stati operazionali ma non quelli motivazionali dell’attività ed il paziente stesso può prendere parte attiva alla riorganizzazione delle proprie funzioni, riconosce il proprio difetto e compie sforzi speciali per superarlo.

Questa caratteristica distingue le forme superiori di riorganizzazione psicologica dei sistemi funzionali dalle riorganizzazioni elementari ed intrasistemiche menzionate in precedenza, che avvengono in maniera diretta in assenza della partecipazione conscia del paziente. A differenza di quest’ultima, nella maggior parte dei casi il ripristino di funzione ad opera della riorganizzazione psicologica richiede un lungo periodo di allenamento conscio. Questo allenamento comincia con il trasferimento dell’operazione difettosa al livello di consapevolezza del paziente, mai completamente raggiunto tempo addietro; il paziente comincia ad introdurre nuovi metodi entro questo processo, mentre rimane conscio per tutto il tempo del sistema di metodi utilizzati. Solo dopo un lungo periodo (molti mesi talvolta) di allenamento un metodo di nuova formazione comincia davvero a diventare automatico, e l’automatizzazione piena spesso non viene mai raggiunta.

 Il fatto che in questi casi la riorganizzazione funzionale avvenga per mezzo dell’acquisizione conscia di nuovi metodi di attività necessita di una ulteriore discussione di questo problema, perché la sua analisi è di importanza fondamentale.

Sin dai tempi di Jackson si sa che il disturbo di una qualsiasi funzione ad un livello di integrazione elevato non implica necessariamente la sua perdita completa. Un paziente che è incapace di eseguire l’azione complessa di indicare un oggetto con il proprio dito è nondimeno, spesso in grado di afferrare l’oggetto (fenomeno di Goldstein); un paziente che non riesce a pronunciare una parola su richiesta potrebbe essere in grado di pronunciarla in un contesto comportamentale (nel caso descritto da Gowers, un paziente, dopo molti tentativi infruttuosi di pronunciare la parola “no”, alla fine venne preso dalla disperazione e disse: “No, non riesco a dire no”). Da ultimo, l’analisi psicologica ha dimostrato che un paziente che riconosce automaticamente una parola scritta con la vista è spesso incapace di pronunciarne analiticamente le singole lettere, oppure che un paziente che può scrivere una parola famigliare con un singolo movimento veloce spesso non riesce a sillabarla consciamente pronunciando le lettere che ne caratterizzano i suoni corrispondenti (A. R. Luria, Afasia traumatica, Cap. 8, 1947).

Questo solleva un problema che è sempre stato oggetto di discussione tra autori che si sono interessati al ripristino delle funzioni cerebrali disturbate da un punto di vista operativo: il fatto che una funzione sia conservata ad un livello inferiore può essere di una qualche utilità per il ripristino di un sistema danneggiato?

Gli autori che sostengono questa concezione hanno enfatizzato il fatto che l’allenamento conscio richiede uno sforzo molto maggiore, che l’apprendimento meccanico può dare un qualche risultato (relativamente modesto) solo dopo molte ripetizioni, e che il lavoro sulla base degli automatismi residui offre numerosi vantaggi. Goldstein (1919, 1942) coerentemente raccomanda che l’insegnamento del linguaggio nei casi di afasia traumatica dovrebbe iniziare con quegli automatismi motori o linguistici che il paziente conserva integri; la maggior parte dei clinici Americani che si occupano del ripristino del linguaggio nell’afasia traumatica, raccomandano che l’allenamento venga iniziato con la pratica nel linguaggio famigliare di tutti i giorni, in cui le espressioni elementari e circoscritte al linguaggio di questo tipo sono conservate al massimo.

Non vi è dubbio che le prime fasi dell’allenamento finalizzato al ripristino devono basarsi sulla parte della funzione rimasta integra che potrebbe essere utilizzata successivamente per la compensazione conscia del difetto. Dimostreremo qui di seguito come questo principio venga applicato nella pratica (per esempio, nella produzione di suoni). Sarebbe tuttavia un grave errore, considerare questo principio come niente più che il punto di partenza di un lungo processo di allenamento conscio, che deve andare molto oltre i limiti posti dall’utilizzo degli automatismi elementari conservati. Abbiamo buoni motivi per ritenere che l’allenamento deve ripristinare proprio quei processi psicologici che non vengono conservati entro gli automatismi elementari residui, e la composizione psicologica delle operazioni soggette alla reintegrazione conscia deve, quindi, essere completamente differente.

Questa posizione può essere supportata da due importanti argomenti, uno il risultato di un’analisi strutturale e psicologica delle funzioni disturbate, e l’altro il prodotto delle osservazioni pratiche cliniche e pedagogiche; entrambe richiedono una discussione speciale.

Il nucleo del primo argomento è che la natura psicologica del difetto da superare molto spesso non coincide con la sua manifestazione clinica esterna, e che nel corso dell’allenamento, costantemente rivolto ad esercitare la funzione conservata del paziente, il difetto di base viene frequentemente ignorato.

Nei disordini post-traumatici della funzione cerebrale osserviamo casi frequenti nei quali un paziente, pur essendo affetto da afasia, è nondimeno in grado di pronunciare determinate parole famigliari. Le indagini dimostrano che il processo della pronuncia di queste parole viene costruito in una maniera completamente differente, e che al fine di ripristinare la pronuncia volontaria di ciascuna parola non dobbiamo semplicemente sforzarci di insegnargli nuove parole o di insegnargli l’utilizzo delle parole in situazioni famigliari, ma dobbiamo insegnargli ad analizzare la composizione fonetica della parola e la sequenza dei suoni, e cercare di rendere il paziente consapevole delle sue proprie articolazioni (a seconda del tipo di disturbo sottostante).

Nella pratica clinica sono stati osservati anche casi nei quali un paziente affetto da afasia causata da una ferita da arma da fuoco del cranio riusciva a scrivere il proprio nome e talvolta la città in cui viveva ed altre parole famigliari, ma era pressoché incapace di scrivere una lettera da solo. Si potrebbe pensare che queste parole consuete dovrebbero essere utilizzate come base per l’allenamento successivo della scrittura, e che il ripristino della capacità di scrivere sia semplicemente l’estensione di questa funzione residua. Secondo la nostra opinione, tuttavia, questo punto di vista non è corretto. Le osservazioni dimostrano che, dal punto di vista psicologico, la scrittura di parole abituali si fonda su un numero di ideogrammi ottico-motori (e talvolta puramente motori) famigliari, e nella loro composizione psicologica questi ideogrammi non hanno niente in comune con la scrittura reale, che si basa principalmente sui meccanismi dell’analisi uditiva. Per ripristinare la capacità di scrivere pertanto dobbiamo cercare non tanto di fare esercizi di elencazione o di ripetizione della scrittura delle parole al momento possedute dal paziente, quanto esercitarsi in atti che a prima vista sembrano non avere nulla in comune con la funzione della scrittura, ma i cui disordini sono la vera causa della disintegrazione di quella funzione. Tali atti potrebbero essere i seguenti: l’analisi uditiva della composizione fonetica delle parole, il ripristino dell’atto di articolare, l’analisi della sequenza nella quale i singoli elementi vengono riuniti in una serie complessa di stimoli e così via. Inoltre, il componente che deve essere ripristinato può essere identificato con una speciale analisi.

L’effetto del lavoro di allenamento su queste componenti primariamente disturbate è spesso quello di causare la disintegrazione delle forme residue della funzione afflitta, e si ha l’impressione che il paziente non sia più abile di prima (la lettura ideografica o la scrittura possono spesso disintegrarsi dopo avere effettuato i primi tentativi di reintegrazione della scrittura fonetica o della lettura). Questi fatti non devono scoraggiare l’operatore, perché la regressione della funzione rudimentale rappresenta spesso un segno del fatto che la riorganizzazione sta avendo luogo con successo.

Un altro fatto essenziale che dimostra la profonda differenza tra la struttura psicologica delle funzioni residue e la costruzione di un autentico ed efficace sistema funzionale, è l’assenza di un ulteriore sviluppo spontaneo del particolare “rudimento funzionale”.

Nella nostra pratica clinica e pedagogica abbiamo osservato numerosi casi in cui la funzione residua non aveva dimostrato variazioni spontanee per diversi anni (pazienti che per diversi anni riuscirono a pronunciare solo poche parole in maniera spontanea, e che rimasero incapaci di dire anche le frasi più elementari), ma quando la tecnica rieducativa venne modificata e si rivolse alla riorganizzazione conscia dei componenti difettosi, essa condusse in due o tre mesi all’effetto desiderato. Abbiamo osservato che l’interruzione dell’allenamento prima che il paziente abbia appreso i metodi di riorganizzazione funzionale non conduce allo sviluppo spontaneo del linguaggio ma, d’altro lato, se l’interruzione avviene dopo che i metodi compensatori corrispondenti sono stati sviluppati, essa promuove il loro ulteriore sviluppo spontaneo.

Queste osservazioni pratiche sull’andamento della regressione spontanea del difetto dimostrano anche l’abisso che separa i “rudimenti funzionali” residui da una funzione appropriatamente conservata.

Le considerazioni precedenti sulla possibilità di ripristino delle funzioni cerebrali danneggiate per mezzo della riorganizzazione dei sistemi funzionali possono essere riassunte nel modo che segue.

Come nelle lesioni degli organi periferici, i sistemi funzionali danneggiati dalle lesioni localizzate che colpiscono il cervello possono essere riorganizzati. Questo è possibile perché i sistemi funzionali del cervello si basano sull’interazione tra numerose aree topologiche. Se le lesioni apportate al cervello non disturbano l’apparato direttamente implicato nel mantenimento di motivazioni stabili e non impediscono lo sviluppo anatomico di nuove connessioni funzionali tra parti differenti del cervello, è sempre possibile che il paziente compensi il difetto attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali.

Questa riorganizzazione assume di solito una delle tre forme principali. Se la lesione è localizzata entro un particolare sistema funzionale (di solito piuttosto elementare), questo sistema funzionale può essere riorganizzato automaticamente e, inoltre, il processo di riorganizzazione può avvenire molto velocemente e senza che il paziente se ne accorga.

Se la lesione causa la disintegrazione di un sistema funzionale complesso formatosi nell’infanzia durante il periodo dell’educazione, anche se molti componenti di quel sistema possono rimanere intatti, l’intero sistema lavorerà in condizioni patologiche; il ripristino può avvenire attraverso la riorganizzazione concettuale intrasistemica dei collegamenti conservati, che solitamente può essere ottenuta con un allenamento speciale, e conduce all’automatizzazione dei metodi di operazione acquisiti in modo nuovo solo dopo un lungo periodo di esercizio.

Da ultimo, se la lesione distrugge completamente un particolare collegamento di un sistema funzionale e conduce alla sua totale disintegrazione, il sistema danneggiato può essere ripristinato attraverso la riorganizzazione intersistemica. Collegamenti che fino a quel momento non avevano mai partecipato al sistema funzionale danneggiato possono ora cominciare a farlo, e possono iniziare ad assumere il nuovo compito di rimpiazzare i componenti distrutti. Anche questo tipo di riorganizzazione solitamente necessita di un lungo periodo di allenamento, che richiede il massimo coinvolgimento consapevole da parte del paziente, e conduce solo gradualmente all’automatizzazione.

Nella stragrande maggioranza dei casi sembra che il ripristino di una funzione cerebrale danneggiata richieda uno speciale allenamento sistematico. Per rendere possibile questo allenamento, dobbiamo dapprima definire la struttura psicologica del particolare disturbo dell’attività, e poi stabilire l’esatta natura del difetto soggiacente (che può variare con la situazione della lesione), e solo allora potremo stabilire quale sia il metodo di riorganizzazione sistemica che meglio si addice a quel particolare difetto.

 

Tags: , , ,

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*


due − 2 =